«Non sono credente, non frequento la Chiesa, ma se mi trovassi davanti a Pio XII mi metterei in ginocchio, perché se io e i miei figli esistiamo, lo dobbiamo a lui». È commosso Silvio Ascoli, romano, classe 1945, mentre racconta la storia del padre Bruno, «di razza ebraica» secondo le norme delle infami leggi razziali, che il Vaticano salvò dalla deportazione arruolandolo tra le sue guardie. Lo aveva detto lo scorso giugno il cardinale Segretario di Stato Tarcisio Bertone: «Nellottobre 1943, oltre alla gendarmeria e alla guardia svizzera, cera anche la guardia palatina. Per proteggere il Vaticano e gli stabili extraterritoriali cerano già 575 guardie palatine. Ebbene, la Segreteria di Stato chiese alla potenza occupante lItalia di poter assumere altre 1.425 persone da inserire nellorganico della Guardia Palatina. Il ghetto ebraico era a due passi...». Ora una nuova testimonianza conferma quellaiuto.
«Mio padre era nato nel 1910, la famiglia di mio nonno apparteneva alla comunità ebraica di Ancona, e sua sorella insieme al marito saranno deportati e uccisi ad Auschwitz». Bruno, scomparso nel 1970, era figlio di un matrimonio misto e non frequenta la comunità degli ebrei romani. Il 28 ottobre 1938, subito dopo lentrata in vigore delle leggi razziali, luomo aveva chiesto e ottenuto il battesimo.
Ma è troppo tardi per sfuggire alla morsa del regime che si stringe attorno agli ebrei. Il parroco cerca di aiutarlo, scrivendo che Ascoli frequentava la catechesi fin dallagosto di quellanno, ma non serve a nulla.
«I miei famigliari provarono a rivolgersi al Ministero dellInterno, attestando di non essere iscritti alla comunità ebraica. Ma il responso fu che chiunque avesse un genitore ebreo e non potesse comprovare di appartenere a unaltra religione da prima dellentrata in vigore delle leggi razziali, era considerato ebreo. Mio padre si era battezzato troppo tardi. Per i miei fu una mazzata terribile».
Così gli Ascoli sono costretti a dichiarare presso il Governatorato di Roma la loro appartenenza alla «razza ebraica». Due anni dopo, nel 1940, Bruno si sposa in chiesa con la cattolica Maria Bianchi, anche se il matrimonio non può avere effetti civili. «Mia madre lo sposò sapendo a che cosa andava incontro». La coppia si stabilisce in via Famagosta, al quartiere Trionfale.
Nellottobre 1943, dopo larrivo dei tedeschi nella capitale, Bruno Ascoli diventa un ricercato. «Un giorno si presentarono a casa dei fascisti e dei nazisti, che chiedevano di mio padre. Lui per fortuna era fuori. I miei riuscirono ad avvisarlo di non tornare». Bruno scappa e trova momentaneamente alloggio in un soppalco, nellautorimessa di un gommista. «Ci rimase per due settimane, mia madre andava a portargli di nascosto da mangiare. Ma a fine ottobre, il gommista lo fece sloggiare perché era diventato troppo pericoloso tenerlo lì. Fu allora che, grazie allinteressamento di uno zio che lavorava ai musei vaticani come usciere, mio padre venne arruolato nelle guardie palatine». Bruno Ascoli diventa un ausiliare delle guardie donore del Papa, può risiedere Oltretevere.
«Gli salvarono la pelle! Rimase lì per alcuni mesi. Ci sono le foto che lo ritraggono vestito da guardia palatina dentro le mura vaticane. E nel dicembre 1943 riceve il prezioso salvacondotto della Santa Sede che attesta la sua appartenenza al corpo donore del Papa». Il figlio Silvio spiega che esisteva una sorta di rotazione, nel tentativo di salvare più perseguitati possibile. «Nei primi mesi del 1944, la Santa Sede indicò a mio padre un altro nascondiglio, in via Mocenigo, vicino alle mura vaticane, presso un deposito di legname. E questo attesta che cera una rete organizzata di assistenza e di aiuto. Lho detto anche ai miei figli: se il Vaticano non avesse aiutato mio padre, io adesso non sarei qui.
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