E sulle foibe si torna alla cortina di ferro

Il comunismo italiano entra in scena dopo l’8 settembre con una significativa connotazione antipatriottica. In quel contesto di «morte della Patria», i comunisti offrono un’alternativa, una «seconda Patria», nel segno dell’«allargamento del campo socialista». L’antipatriottismo presentato come riscatto dal fascismo è in quel periodo al centro delle istruzioni di Togliatti: da quelle sulla sorte (indifferente) dei soldati prigionieri in Urss a quelle di cedere il più possibile territori italiani all’«Armata jugoslava liberatrice».
Si tratta di un episodio importante per comprendere come è stata disegnata la «cortina di ferro». La tragedia che vissero gli italiani, gli antifascisti e i partigiani non comunisti di quell’area ebbe origine da quell’imprevedibile tenaglia tra antipatriottismo dei comunisti italiani e nazionalismo dei comunisti jugoslavi. Nell’ottobre 1944 Togliatti riceve a Roma una delegazione di jugoslavi mandatagli da Tito. L’incontro si conclude con l’impegno del Pci a sostenere le tesi titine sia per quanto concerne le rivendicazioni sui territori italiani sia sulla questione di far assorbire le formazioni partigiane italiane in Venezia Giulia nell’esercito jugoslavo. Inizia la storia drammatica che ha come capitoli migliaia di italiani massacrati e ammassati nelle foibe e l’esodo a cui vennero costretti 350mila giuliani, friulani e dalmati. Dopo la caduta dei regimi comunisti, a partire dagli anni Novanta, non solo a livello storico, ma anche istituzionale, vi è stata una riabilitazione ed una ammissione anche da sinistra di questi orrori. La pubblicazione di un libro sull’argomento (Joze Pirjevec, Foibe. Una storia italiana, Einaudi, pagg. XVIII-376, 32 euro) da parte di una grande casa editrice di sinistra sembrava la conclusione di una «guerra civile» storiografica sull’argomento ed invece la lettura ci fa ripiombare in piena «guerra fredda»: da un lato ci sono «le simpatie del proletariato per la causa della Jugoslavia» e dall’altro «le forze borghesi triestine». Gli antifascisti del Cln che contestano Tito sono preda di «una barriera psicologica (che) impediva agli antifascisti “borghesi” di collaborare con gli “slavi” per costituire un fronte unico contro i nazisti». Anche l’esodo che vide la fuga disperata lasciando i propri beni ha per protagonisti, secondo l’autore, italiani «indottrinati dal nazionalismo e dal fascismo a sentirsi razza eletta». «In questa situazione - prosegue l’autore - il discorso delle foibe assunse una valenza simbolica che la parte italiana seppe sfruttare appieno puntando sulla tesi che gli jugoslavi non erano degni di governare le terre conquistate con le armi».
Tutta la rievocazione presenta antifascismo anticomunista e nazifascismo come un blocco unico. E così quando deve affrontare il caso di Porzûs, dove i comunisti uccisero a tradimento i partigiani della Osoppo che non volevano mettere la divisa jugoslava, Pirjevec lo liquida come «episodio marginale pur nella sua tragicità» che ha assunto «dimensioni sproporzionate».

«La strage - ha invece ricordato la storica Elena Aga-Rossi - fu il risultato di una politica volta all’eliminazione degli avversari che nel Friuli si opponevano all’occupazione jugoslava». Questo libro serve solo a ricordare che in Italia ci sono ancora mattoni del Muro di Berlino con cui si cerca di seppellire la verità storica.

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