Quando due mesi e mezzo fa si sbarazzò di un Hosni Mubarak diventato ormai ingombrante il presidente Barack Obama pensava di aver fatto un grande affare. Immaginava d’essersi guadagnato la riconoscenza dei nuovi vincitori. S’illudeva d’aver fatto la scelta giusta per preservare il ruolo degli Stati Uniti in Medio Oriente. Il trattato di riconciliazione tra Hamas e Fatah mediato in gran segreto dal nuovo ministro degli Esteri egiziano Nabil Araby è la prova più evidente degli errori di calcolo della Casa Bianca. E la prova di come le nuove autorità egiziane non intendano collaborare con i vecchi alleati, ma guardino, invece, a una nuova politica di contrapposizione con Israele.
Con quell’accordo tessuto in gran segreto l’Egitto allunga un calcio ad Obama, lo esclude dalla più cruciale partita diplomatica e punta ad assumere il controllo della questione palestinese. Con quella mossa l’Egitto non minaccia soltanto di chiudere per sempre qualsiasi speranza di pace negoziale, ma rischia di consegnare anche la Cisgiordania ad Hamas confermando, indirettamente, le tesi di quanti in Israele giudicano inutile la ripresa delle trattative di pace. Del resto l’accordo tessuto da Nabil Araby, uno dei ministri del nuovo esecutivo più ostile a Israele, non prevede né il riconoscimento dello Stato ebraico, né la rinuncia alla lotta armata, né l’accettazione degli accordi di pace di Oslo.
«Il nostro programma non include né negoziati con Israele né il suo riconoscimento», - chiarisce Mahmoud Zahar, uno dei leader di Hamas protagonista della trattativa con Fatah e con gli egiziani. L’accordo in cinque punti prevede, invece, la creazione di un governo provvisorio, la nascita di una forza di sicurezza comune e l’ingresso di Hamas nell’Olp, l’Organizzazione per la liberazione della Palestina nella quale da sempre è egemone Fatah.
Dopo le elezioni parlamentari del 2006 vinte dal gruppo integralista e la battaglia per il controllo di Gaza combattuta nel 2007 fondamentalisti e l’Anp si erano di fatto spartiti i territori palestinesi. Il tentativo di riconciliazione messo a punto da Nabil Araby punta invece a riunificare la Gaza fondamentalista di Hamas e la Cisgiordania laica di Fatah. Il progetto non prevede però né un ruolo per gli Stati Uniti, né uno spazio negoziale con Israele.
Non a caso la prima vittima dell’accordo è il primo ministro dell’Autorità Palestinese Salam Fayyad. Il premier, considerato l’uomo di fiducia di Washington e il garante degli aiuti per centinaia di milioni di dollari versati all’Anp dal Congresso statunitense, è stato tenuto all’oscuro dell’iniziativa e non troverà posto nel nuovo governo provvisorio. Meno chiara la scommessa di Mahmoud Abbas. Accettando il piano egiziano il presidente palestinese punta forse a vendicarsi di una Casa Bianca colpevole di non aver bloccato l’ espansione degli insediamenti rilanciata dal governo israeliano di Benjamin Netanyahu, ma rischia di siglare la propria condanna a morte politica. Il ritorno di Hamas al di fuori dei recinti di Gaza rischia di far cadere vaste aree della Cisgiordania in mani fondamentaliste allargando l’influenza iraniana e spingendo Israele a reagire pesantemente ad eventuali attacchi messi a segno da quei territori. Il colpo definitivo a qualsiasi possibilità di pace si nasconde nella postilla che prevede l’entrata di Hamas nell’Olp.
Grazie a quell’intesa l’organizzazione fondamentalista potrebbe assumere il controllo dell’organizzazione garante degli accordi di Oslo e decretarne la cancellazione.
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