«Contrariamente a quello che si è voluto far credere, Ilaria Alpi e Miran Hrovatin non sono stati eliminati perché a conoscenza di sconvolgenti segreti. Sono invece stati uccisi, come tanti giornalisti, in zona di guerra dove la vita è appesa a un filo e la morte sempre in agguato. Sono dei semplici eroi del giornalismo. Niente di meno, niente di più», dice Carlo Taormina, più commosso di quanto non voglia mostrare e con un lirismo che lascia stupita anche la moglie, entrata nel salotto a portarci un tè. Salotto è un insulto per una fuga di tre saloni separati l'uno dall'altro da vetrate che fanno intravedere specchi e suppellettili, divani e tappeti, per ricevimenti di favola, con Eccellenze, belle donne e inevitabili imbucati.
Al momento però, uscita la signora Taormina, nel triplice salone siamo soli l'avvocato, nonché deputato di Fi, e il sottoscritto. L'avvocato ha una camicia da cow-boy, a scacchi rossi e neri, un'aria distesa e, se non fosse per il tema tragico che stiamo per affrontare, direi quasi raggiante. Soddisfatto perché, una volta tanto, un'inchiesta parlamentare è terminata in tempi decenti. In un anno e mezzo, la Commissione ad hoc di Montecitorio, presieduta appunto da Taormina, ha concluso l'indagine sull'omicidio del 20 marzo 1994 dei due giornalisti a Mogadiscio.
Ricorderete. Inviati dal Tg3 per seguire la partenza del contingente militare italiano, in Somalia dal '92, Ilaria Alpi, giornalista, e Hrovatin, operatore, furono uccisi in auto a poca distanza dall'albergo da cui erano appena usciti. Ilaria era romana, trentenne, di famiglia in vista. Il padre, collaboratore di Spallone, medico di Togliatti, era stato l'urologo del segretario del Pci, Enrico Berlinguer. Hrovatin, di poco più anziano, era triestino. Subito su queste morti furono fatte illazioni. Non da parte dei Hrovatin, che accettarono la versione della tragica fatalità bellica. Furono invece gli Alpi a sostenere subito la tesi di un'eliminazione mirata di Ilaria. La figlia avrebbe scoperto in Somalia traffici illeciti di autorità italiane e quindi uccisa per farla tacere. Per anni, le voci sui mandanti e sui modi dell'assassinio si sono rincorse, senza venirne a capo. Ora la Commissione, incaricata di fare chiarezza, ha concluso i lavori. Il 23 febbraio voterà la bozza di relazione preparata dal presidente Taormina. Si prevede che 12 deputati della Cdl l'appoggeranno, gli otto della Sinistra, no.
Il presidente, sorseggiando il tè, anticipa al cronista le conclusioni che, già lo sappiamo, escludono il complotto.
Un esito piatto e banale.
«Deludente rispetto all'enfasi data a una vicenda in cui ha dominato la dietrologia. Ma abbiamo raggiunto la verità con prove scientifiche».
La sua proposta di Relazione dice: dietro al delitto «non c'è assolutamente nulla». Un mistero d'Italia si liquefà?
«Esattamente. Un mistero costruito con dati di provata falsità».
Falso che Ilaria avesse saputo di traffici di armi o di scorie radioattive o di malversazioni nella cooperazione allo sviluppo?
«Traffici clandestini di armi in Somalia sono un non senso. In assenza dello Stato, si facevano alla luce del sole. Quando il capo del governo, Siad Barre, cadde nel '91, i suoi arsenali furono svuotati e ogni tribù ne faceva commercio. Deserto probatorio anche su scorie radioattive e mala cooperazione denunciate dalla stampa».
Si era fatto il nome di Bettino Craxi come mandante degli omicidi.
«Non solo di Craxi. Ma del generale Rajola Pescarini, di padre Sommavilla, di Giancarlo Marocchino. Calunnie. Io stesso sono stato accusato dagli Alpi di fare parte del clan socialista, quando videro che l'indagine non confermava le loro supposizioni».
Per i genitori, Ilaria è stata uccisa da un'arma puntata alla sua testa, come un'esecuzione. Voi invece parlate di uccisione a distanza.
«A non meno di 5,20 metri con un kalashnikov. Il primo a essere colpito fu Hrovatin che sedeva davanti. Riversandosi, il corpo lasciò libero lo spazio agli altri colpi e uno bucò lo schienale. Ilaria, che era rannicchiata dietro il sedile anteriore, fu centrata in pieno, per tragica fatalità. La ricostruzione, dei periti dell'Università Cattolica e dall'Antiterrorismo della Polizia, è inattaccabile. L'accetta la totalità della Commissione e il consulente degli Alpi. Ma, da allora, i genitori hanno smesso di collaborare con noi».
Per l'uccisione è stato condannato a Perugia il somalo Hashi Omar Hassan: 26 anni di galera.
«Abbiamo appurato che a uccidere fu una banda di sei persone. Per noi, Hashi non faceva parte del commando. Un nostro teste somalo, in Italia sotto copertura, ci ha dato la lista dei sei nomi e Hashi non c'è. Inoltre, il teste che a suo tempo accusò Hashi, Alì Rage, detto Gelle, non era presente ai fatti e non è credibile, essendosi volatilizzato prima del processo».
La condanna di Hashi sarà riesaminata?
«La revisione è competenza della Procura generale della Corte d'Appello di Perugia, che avrà i nostri atti».
Per la condanna di Hashi, lei parla di sentenza «di grande superficialità».
«La sentenza non sposa la falsa tesi del complotto, ma è impregnata dei veleni della disinformazione. In ogni caso, una condanna non può basarsi su un teste, Gelle, che scompare prima del processo».
Lei sostiene che il difensore di Hashi, pur avendo prove a discarico, lo ha lasciato al suo destino.
«Aveva la bobina di un'intervista tv di Gelle in Somalia, che dopo essere scomparso dall'Italia, dichiarava di essersi inventato tutto. Non l'ha prodotta, forse subornato da qualcuno».
Chi è questo fior di difensore?
«L'avvocato della comunità somala in Italia, Douglas Duale, che ora aspira a diventare presidente della Somalia».
Sull'intera vicenda, accusate «una centrale giornalistica di depistaggio». Ha fatto credere con ogni mezzo che Ilaria sia stata eliminata perché depositaria di segreti. Da chi è formata la «centrale»?
«Da molti. Di complotto ha parlato il Tg3, in testa Maurizio Torrealta. Famiglia Cristiana, L'Espresso, l'Unità. Gran ruolo ha avuto l'ex deputata Ds, Angela Maria Gritta Grainer, che sulla vicenda ha scritto un libro con Torrealta e i genitori di Ilaria. Una curiosità...».
Dica.
«Giuliana Sgrena del Manifesto, amica di Ilaria, ha fatto un'inchiesta in Somalia e ha concluso, come noi, per la morte accidentale. Gli Alpi hanno troncato i rapporti anche con lei».
I giornalisti si sarebbero accordati con magistrati, poliziotti, politici. Tra i complici, le procure e la Digos di Udine.
«La centrale si costituisce nel Nord-Est dove, guarda caso, aveva il suo collegio la Grainer. Con la Digos di Udine aveva rapporti il giornalista Luigi Grimaldi, anche lui autore di un libro. Si sono presi confidenti fasulli ai quali si è fatto dire ciò che si voleva, su mandanti, sicari, ecc. In base alle rivelazioni si costruivano poi articoli su articoli. La procura è stata essenziale per l'ingresso nelle carceri e gli incontri coi pentiti.
Che interesse c'era a costruire questo castello attorno all'uccisione di Ilaria?
«Siamo nel marzo '94. Berlusconi stava vincendo le elezioni. C'era livore contro Craxi e si voleva dare una mazzata definitiva ai vecchi partiti. Cosa di meglio che i presunti traffici somali? Così si decise, come fu proclamato qualche mese dopo alla Festa dell'Unità, di fare di Ilaria un'icona della sinistra».
Quali politici si sono adoperati?
«Tutto parte da Walter Veltroni, vicepresidente del Consiglio nel '96. Premuto dalla famiglia Alpi, Veltroni incarica l'ambasciatore Cassini di interessarsi della vicenda e di portarla a soluzione».
Gli disse di creare false prove?
«Naturalmente, no. Gli disse di trovare la verità che, per Veltroni, era però la tesi del complotto».
Chi è Cassini e cosa fece?
«Un diplomatico di sinistra, il cui nome è anche nel dossier Mitrokhin. Cassini parte per la Somalia e non trova nulla. Scrive semidisperato a Veltroni. Poi però scova il falso teste Gelle. Il resto lo sappiamo. Gelle accusa il somalo poi condannato per l'omicidio».
Voi avete sentito Gelle?
«Lo stiamo ancora cercando. Ma è introvabile. Temo che siamo stati ostacolati da chi poteva».
Ce n'è anche per il Sismi. Avrebbe nascosto i dispacci dei suoi agenti in Somalia che escludevano il complotto.
«Il suo capo, generale Siracusa, si è giustificato dicendo di non essere stato adeguatamente informato dai subordinati. Classico scaricabarile. Noi, invece, siamo giunti esattamente alla conclusioni del Sismi in Somalia. Nulla avremmo però saputo senza l'opera, a rischio della vita, di un nostro collaboratore, il commissario Antonio Di Marco, che ha fatto la spola con Mogadiscio».
Anche la Rai, per cui lavoravano Ilaria e Hrovatin, è per il complotto.
«Non la Rai. Il Tg3, legato alla sinistra».
Parlate di «omertà e arroganza» dei colleghi di Ilaria interrogati dalla commissione.
«A Torrealta, ma anche i redattori Bonavolontà e Loche, sembrò che interrogarli fosse lesa maestà. Erano seccati perché li avevamo perquisiti in Rai e in casa».
Per cercare?
«Arrivati i bagagli sigillati di Ilaria, alcuni colleghi avevano trafugato in aeroporto bobine e bloc notes. Abbiamo poi saputo che erano cose senza importanza. Ma si era voluto far credere che si mettevano in salvo i drammatici e inesistenti segreti di Ilaria».
Quanto della sua bozza è accettata dall'opposizione?
«Ammettono che mancano prove per dire che Ilaria sia stata giustiziata perché a conoscenza di segreti. Ma vorrebbero non scontentare i genitori e il giornalismo depistante».
Perché è nata l'inchiesta parlamentare, se la verità giudiziaria era già accertata?
«I giudici non avevano confermato l'auspicata tesi del complotto. Si sperava di riuscirci con la Commissione che è stata voluta dalla sinistra».
Perché è stato scelto lei come presidente?
«È stata la variabile impazzita. Loro volevano il ds Calzolaio o uno compiacente.
Il succo della vostra indagine?
«Abbiamo le carte per provare come, con giornalisti e giornali, si può alterare la verità e depistare la giustizia».
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