Un altro alpino è "andato avanti", come dicono le penne nere quando uno di loro cade in prima linea. Non ci sono parole per spiegarlo alla moglie Daniela, che aspettava il ritorno del suo Luca dall'Afghanistan, per l'agognata luna di miele. Chi lo dice al padre Antonio, da sempre contrario alle partenze in armi del figlio, che il suo ragazzo non tornerà fra due mesi a fine missione, ma arriverà oggi in una bara avvolta dal tricolore.
Ad ogni caduto in terra afghana si alzano in volo in Italia le cornacchie del malaugurio, come gli orfani di Marx ed i demagoghi stile Di Pietro che non sanno di cosa parlano, ma invocano il ritiro immediato. Ogni tanto ci si mette anche la Lega.
Alla notizia della morte del caporal maggiore Luca Sanna e del grave ferimento di un altro alpino, pure il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, si è chiesto se ne vale la pena. Emerso per un attimo dagli schizzi di fango del caso Ruby il premier ha ammesso: «Di fronte ad un dolore che si ripete troppo spesso, ci chiediamo se serve davvero restare lì per provare a portare la democrazia». E poi ha aggiunto: «Speriamo davvero di poter attuare una strategia per il ritorno dei nostri soldati». Ovviamente è passata in secondo piano, o addirittura scomparsa, la frase pronunciata subito dopo: «Stiamo addestrando le forze afghane e speriamo che il governo di Kabul sia presto in grado di garantire la sicurezza e la stabilità».
Sanna e l'alpino ferito sono stati colpiti a tradimento da un "infiltrato" dei talebani, che prestava servizio da tre mesi nell'esercito afghano. Azioni del genere, che puntano a polverizzare la fiducia fra alleati, divisioni etniche, uso di droghe, analfabetismo minano le forze delle sicurezze di Kabul, ma non c'è alternativa. Per andarcene dobbiamo lasciare al nostro posto 400mila afghani, fra esercito e polizia, che siano in grado di proteggere il loro Paese da soli. Un obiettivo da raggiungere nel 2014, secondo i piani della Nato. E per farlo dobbiamo stringere i denti, senza lacrime di coccodrillo per i nostri caduti e avendo ben presente perché si deve rimanere in Afghanistan fino a quando la missione non sarà compiuta.
Vogliamo che 2,5 milioni di bambine tornate a scuola dopo il crollo del regime di mullah Omar ripiombino nel Medioevo talebano? Dopo essere arrivati a Kabul nel 2002 molliamo tutto, senza aver finito il lavoro, ovvero far uscire il popolo afghano da un tunnel di guerra che dura da 30 anni? Ci ritiriamo con la coda fra le gambe, come ha fatto il governo Zapatero in Irak, dopo un attacco del terrore, fregandocene degli accordi internazionali e facendo la figura di chi cala le braghe? Lasciamo che i talebani si riprendano Kabul per far rispuntare i fantasmi di Osama bin Laden e di nuovi 11 settembre?
Non penso proprio, ma per esserne consapevoli bisogna rendersi conto che non è una Waterloo perdere 36 uomini in Afghanistan in quasi dieci anni. Gli inglesi piangono 349 morti, gli americani 1387 e di afghani ne muoiono circa quattromila all'anno, la metà civili. Il sacrificio della vita fa parte del mestiere di soldato, soprattutto se per garantire la pace deve fare la guerra, come in Afghanistan. Non dobbiamo trattare ogni militare ucciso come se avessimo perso un reggimento. Invece sarebbe doveroso sospendere per un attimo le melmose polemiche di casa nostra per onorare l'ultimo alpino "andato avanti" e parlare di Afghanistan. Lo ha fatto presente Paolo Mieli, martedì sera a Ballarò totalmente dedicato al caso Ruby.
A Herat gli alpini della Julia pensavano ad altro dandosi il cambio al fianco dell'ultima bara avvolta nel tricolore. Per continuare questa "guerra" di pace dobbiamo avere lo stomaco e la forza interiore per sopportare i nostri morti e anche quelli dall'altra parte della barricata. Con la stessa convinzione del sergente dei paracadutisti Stefano Taggiasco, che sta ripartendo per l'Afghanistan.
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