Ecco Warhol, pentito ma non redento

Fedora Franzè

Iniziava dieci anni fa l’attività espositiva del Chiostro del Bramante, con una mostra su Andy Warhol e la sua icona più nota, Marilyn. Oggi una nuova selezione di opere dell’artista americano celebra l’anniversario di quella che da allora è divenuta una delle sedi espositive più brillanti della città, oltre che più suggestive. Il connubio pop-art-Bramante ha inaugurato una serie ininterrotta di esposizioni importanti, le quali hanno contribuito alla conoscenza di artisti già noti internazionalmente e alla riscoperta di artisti grandissimi ma poco frequentati dalla critica recente.
Questa volta viene offerta una lettura inusuale di Warhol: attraverso lo studio della documentazione in possesso del Museo di Pittsburgh, città natale dell’artista, è emerso un filone creativo legato alla dimensione più intima, (tenuta gelosamente per sé in alcune manifestazioni), quella spirituale e religiosa, che una volta emersa ha potuto illuminare di nuovi significati alcuni percorsi paralleli della sua produzione. Nato da una famiglia slovacca di religione cattolica uniate, Warhol trascorre un infanzia da emigrante che preserva il legame con le proprie radici anche attraverso la pratica religiosa quotidiana. Assieme alla madre il piccolo Andy andava a messa ogni giorno, in una chiesa tappezzata di immagini religiose; dentro casa un piccolo altare era il segno di una profonda devozione. Così non stupisce che in una foto d’archivio del 1987 lo scorcio della camera da letto dell’artista mostri un crocefisso ligneo sul comodino, accanto alla lampada. È pur vero che la terminologia usata per definire certa assolutezza dell’opera di Warhol è perfettamente coerente con questo punto di vista. Si parla di «icone pop» non a caso per le sue Marilyn, le Jackie Kennedy o i Marlon Brando. L’operazione di sottrazione delle immagini comuni al flusso del consumo e la loro reificazione non è estranea ad una logica estetica religiosa, come non lo è l’uso dell’oro (in mostra una Monna Lisa del 1979). Esplicite (e note) si fanno le sue riflessioni sulla vita e la morte con la serie dei «Disaster» sugli incidenti d’auto, con le sedie elettriche, con le scatolette di tonno che - alter ego delle rassicuranti zuppe della Campbell - procurarono un famoso caso di avvelenamento fatale.
Una sezione dell’esposizione è dedicata ad opere liberamente tratte da capolavori del Rinascimento, dell’arte antica e moderna: oltre alla Gioconda un principessa col drago in versione ultracolorata tratta da Paolo Uccello, il volto della Venere di Botticelli interpretato con pochi colori a contrasto, figure etrusche dalle silhouette rosse e le muse dechirichiane in versione seriale.
Ma l’opera su cui Andy Warhol torna più frequentemente, quasi ossessivamente, riproducendola in un numero di varianti tale da non essere stato ancora quantificato, è «The Last Supper». Partendo dall’opera di Leonardo Warhol ne saggia le possibilità cromatiche, materiche (vi sovrappone effetti mimetici), ne isola i personaggi, reitera la figura di Cristo fino a 112 volte nella stessa tela, ne mescola l’immagine parziale a simboli della vita contemporanea.

Nell’omelia funebre in onore dell’artista il critico John Richardson rivendicava la centralità dell’elemento spirituale nella creatività e nella personalità di Warhol, suscitando all’epoca un certo stupore. La mostra del Chiostro chiarisce oggi in modo inequivocabile quella lettura, che appare non in contrasto ma perfettamente integrata all’immagine arcinota del maestro della pop-art.

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