«La festa è finita!». Ovviamente i seriosi report sulle banche italiane non utilizza questa estrema sintesi, ma il senso dell'analisi è esattamente il medesimo: per gli istituti di credito del Belpaese, dopo i recenti rialzi di Borsa, proseguire il rally sarà molto difficile. Per una duplice serie di motivi. La prima è tecnica: alle valutazioni attuali i titoli bancari risultano costosi. La seconda è di natura finanziaria: la crisi economica continuerà a tenere i bilanci sotto stress per via dell'aumento dei crediti in sofferenza. Questi ultimi richiederanno o maggiori coperture oppure svalutazioni pesando sui conti dei prossimi anni.
Ecco perché Citi ha deciso di abbassare la valutazione dei due big: Intesa Sanpaolo passa da «neutral» a «sell» (vendere) e Unicredit da «buy» (comprare») a «neutral». Per chi volesse scommettere sull'Italia c'è solo la via indiretta: puntare su banche estere (Bnp Paribas su tutte), già presenti nel nostro Paese con una rete di filiali. Un po' meno pessimista ma sempre ugualmente cauta Exane che ieri ha rivisto al ribasso i giudizi sul Banco e su Intesa, entrambi passati a «neutral»
Come detto, il rialzo delle quotazioni ha accelerato i downgrade. Praticamente le azioni bancarie italiane trattano a circa la metà del valore di libro tangibile, risultando troppo costose rispetto ai fondamentali. Dai minimi del 23 luglio, Intesa ha guadagnato il 55%, Unicredit il 63,6%, Mps il 76%, Ubi l'81% e il Banco il 66 per cento. Anche perché la redditività è circa la metà di quella della media europea (il ritorno sugli asset è del 5% contro un 10% del settore) e dunque un tale prezzo non è più allineato con i fondamentali.
È sufficiente questo per giustificare il pessimismo? Secondo alcuni esperti la risposta è appermativa perché l'elevato livello dei crediti non performing (sofferenze, incagli e crediti ristrutturati). In Italia la media è del 14,5% del totale dei prestiti con punte che vanno dal 16,6% del Banco al 17,8% del business italiano di Unicredit al 18,2% di Mps. Cariparma e Ubi sono i competitor messi meglio, entrambi hanno un tasso di sofferenze che si attesta su livelli inferiori al 10 per cento. Il problema, sottolinea Citi, è che il picco del fenomeno dovrebbe essere raggiunto alla fine del 2014. Certo, questo stato di cose tende a riflettersi sul margine di interesse perché gli attivi incagliati non producono reddito ma assorbono capitale.
Alla debolezza del contesto macroeconomico che porta i debitori a restituire con difficoltà i propri crediti le banche possono reagire con una sola misure: aumentare il fondo rischi su crediti e le relative coperture (scese al 40% dal 49% del 2008). In questo modo, la capacità di produrre utili sarebbe compromessa perché accantonamenti e svalutazioni si «mangerebbero» i profitti. L'unica possibilità, considerato che una ripresa è ancora molto lontana, è rappresentata da un taglio dei costi ancora più severo di quello ipotizzato da tutti i grandi istituti (tranne Intesa e Unicredit tutte le grandi banche hanno un rapporto costi/ricavi superiore al 60%). La seconda speranza è l'aiutino della Bce: nuove misure che incentivino la liquidità e che allevino il peso dei Btp nel portafoglio di tutte le banche sarebbero determinanti. Insomma, acquisti mirati di titoli di Stato (Intesa e Unicredit ne possiedono oltre 40 miliardi) consentirebbero ai bilanci di tirare un sospiro di sollievo. Allo stesso modo, un'altra asta di rifinanziamento a lungo termine sarebbe molto positiva.
Come uno sciame di calabroni, però, Unicredit (+2,5%), Ubi (+2,7%), Mps (+2,2%) e anche Intesa (+0,5%) hanno continuato a volare. Per molte case d'affari non potrebbero visti i fondamentali, ma loro lo hanno fatto lo stesso.
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