Bruxelles vede aiuti di Stato ad Alitalia

Giù la cassa integrazione e i sindacati brindano, ma la Ue sospetta la nazionalizzazione

Bruxelles vede aiuti di Stato ad Alitalia

La Commissione europea ha deciso di aprire un'«indagine approfondita» per capire se i 900 milioni prestati dal governo ad Alitalia si possano configurare come aiuti di Stato. Il primo, immediato effetto della notizia è che la vendita della compagnia diventerà più difficile, andando a pesare sull'acquirente anche il rischio di dover restituire questa ingente somma. Perché se il prestito venisse ritenuto non conforme alle norme europee, la compagnia sarebbe condannata a restituirlo; prima della vendita, significherebbe fallire definitivamente; dopo la vendita, significherebbe aggravare notevolmente l'impegno del compratore. Che, evidentemente, farà i suoi calcoli prima di sottoscrivere l'acquisto.

Perché la commissaria alla concorrenza Margrethe Vestager vuole andare a fondo su queto tema? Un finanziamento non è considerabile aiuto di Stato se rispetta le regole europee e le condizioni di mercato. Tre i dubbi dell'Ue: il primo riguarda l'entità degli interessi. Sono alti, è vero (circa il 10%), ma secondo le compagnie che hanno presentato il ricorso (che sarebbero Ryanar e Lufthansa) troppo bassi rispetto alla solvibilità della società commissariata. Il secondo è l'entità: ai 600 milioni erogati nel maggio 2017 ne sono stati aggiunti altri 300 nell'ottobre successivo; troppo, secondo i ricorrenti, a tal punto che l'amministrazione straordinaria non ne avrebbe ancora fatto uso, o quasi. Terzo, per un prestito della durata superiore a 6 mesi il governo avrebbe dovuto presentare un piano di ristrutturazione di Alitalia, dimostrandone la sostenibilità di lungo periodo.

Fin qui la teoria. Passando a un livello più pragmatico, va osservato che approfondire un'indagine a livello europeo spesso è un atto dovuto, non necessariamente preliminare a sanzioni. I tempi di una pronuncia sono normalmente lunghi, e il tempo potrebbe depotenziarne l'effetto. La faccenda, infine, è in buona parte politica. Il governo in carica, erogatore di quei finanziamenti, saprà sicuramente difendere il suo operato nelle sedi competenti; e il governo che verrà, se avrà degli istinti antieuropei, nel caso di una pronuncia contro l'Italia potrebbe farla diventare un'occasione di scontro. Se condannata a restituire quei soldi, ripetiamo, Alitalia fallirebbe.

Nel frattempo, in attesa di un nuovo governo che possa prendere in mano il dossier Alitalia con pieni poteri, sembra di assistere a una «nazionalizzazione strisciante», nella quale si adombra l'intervento della Cassa depositi e prestiti e di altri capitali italiani e stranieri. E, in questo clima di incertezza, i sindacati brindano per aver ottenuto la riduzione della cassa integrazione, prorogata al 31 ottobre: gli esuberi sono stati ridotti da 1.600 a 1.480. Va ricordato che proprio i sindacati, nell'aprile 2017, aprirono la via del commissariamento opponendosi al piano Cai-Etihad che prevedeva un taglio dei costi.

I commissari stanno gestendo la compagnia al meglio, ma sono piuttosto avari di numeri, né la stagione del basso prezzo del petrolio è stata sfruttata al pari di altre concorrenti. Prima di un possibile progetto che preservi l'identità nazionale della compagnia, occorrono però idee molto chiare. Se anche sono nella testa dell'attuale ministro dello Sviluppo, Carlo Calenda, è difficile che questi le regali ai suoi successori.

La compagnia sta ancora aspettando, peraltro, il decreto ministeriale annunciato dieci giorni fa con le nuove scadenze per la procedura di vendita. Entro il 30 aprile andrebbe scelta la migliore offerta fra le tre pervenute; ma un rinvio è necessario.

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