Draghi accusa gli Usa: "Cambi alterati"

Mnuchin (Tesoro) nel mirino per aver elogiato la debolezza del biglietto verde

Draghi accusa gli Usa: "Cambi alterati"

È il SuperMario furioso, una versione del tutto inedita del banchiere seppur non sempre compassato e diplomatico, quello visto ieri a Francoforte. Con l'euro che ticchetta come una bomba a orologeria oltre la soglia degli 1,25 dollari per la prima volta da tre anni, il presidente della Bce prova prima a resistere («Il rafforzamento è giustificato dall'andamento dell'economia»), ma poi proprio non ce la fa. Draghi deve aver ancora nelle orecchie le parole pronunciate poche ore prima dal palco di Davos dal segretario Usa al Tesoro, Steven Mnuchin, su quanto un dollaro debole sia un toccasana per gli Usa dal punto di vista commerciale. In tempi normali, sarebbe un'ovvietà lapalissiana degna di non essere neppure segnalata. Di questi tempi, non lo è. Anzi, è la classica goccia che fa traboccare un vaso già colmo, l'innesco di un braccio di ferro dagli esiti imprevedibili fra due ex golden boy di Goldman Sachs. Fratelli coltelli. Pur non citando mai direttamente Mnuchin, l'ex governatore di Bankitalia distilla veleno cavandone fuori l'accusa più grave: manipolazione dei cambi. Dice: l'ipertrofia dell'euro è dovuta in parte «all'uso di un certo linguaggio... che non riflette quanto avevamo concordato» e su cui «diversi componenti» del direttivo hanno espresso la loro preoccupazione. Chiaro il riferimento a un'aperta violazione, da parte degli Stati Uniti, degli accordi presi durante la sessione autunnale del Fondo monetario internazionale. Quando, tutti, avevano convenuto sull'importanza di tenere le bocche cucite sull'andamento delle valute e si erano impegnati «a trattenersi da svalutazioni competitive e a non cercare di influenzare i tassi di cambio per fini competitivi». In serata prova a metterci una pezza Donald Trump: «Voglio vedere un dollaro forte, Mnuchin è stato interpretato fuori dal contesto».

È evidente che qui si scherza col fuoco. Se l'euro muscolare rischia di impattare pesantemente sull'export (e quindi sulla crescita economica in generale) e su quelle dinamiche inflattive che governano le tempistiche dell'Eurotower in materia di uscita dal quantitative easing, dall'altro lato la debolezza del biglietto verde potrebbe essere un boost inatteso per l'inflazione statunitense. Costringendo la Fed a essere più aggressiva sul fronte dei tassi, così da spegnare la fiammata dei prezzi. Una medicina, però, che potrebbe essere amarissima per Wall Street. La Bce, comunque, «non darà un target» ai tassi di cambio, malgrado siano «importanti per la crescita e la stabilità dei prezzi». Nè, per ora, Draghi sembra voler rimescolare le carte della politica monetaria. Gli acquisti di titoli proseguiranno fino a settembre al ritmo mensile di 30 miliardi, «ma anche oltre se sarà necessario». Come al solito, dipenderà dall'inflazione. All'orizzonte, inoltre, non c'è alcuna stretta sui tassi: «Sulla base dei dati e delle proiezioni attuali ci sono pochissime possibilità che possano essere alzati quest'anno». Insomma, pietra tombale sulle ipotesi, alimentate dopo la diffusione delle minute della riunione di dicembre, di un cambio di rotta più ravvicinato. Non è tuttavia da escludere che nel vertice dell'8 marzo, quando la Bce pubblicherà anche le nuove proiezioni per il prossimo triennio su crescita e inflazione, si possa vedere il primo cambiamento della forward guidance. Draghi ha negato che all'interno del board ci siano profonde differenze «esistenziali» sulle scelte di politica monetaria e non. «Possono esserci invece divergenze su quando dire alcune cose.

Ed è su questo punto che bisogna essere rigorosi». Quanto al programma di acquisti mensili, «dobbiamo distinguere tra arresto improvviso, estensione del programma e tapering graduale». La partita è ancora del tutta aperta.

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