«Stiamo monitorando da vicino ogni rilevante nuova informazione e siamo pronti ad usare tutti gli strumenti disponibile all'interno del nostro mandato per agire, se necessario, in particolare aggiustando l'entità, la composizione e la durata del programma di acquisto di asset». Anche quando, come è accaduto ieri da Lima, usa uno strumento non convenzionale come Twitter, lo stile di comunicazione di Mario Draghi è inconfondibile: la reiterazione del messaggio indica che il capo supremo della Bce è vicino all'obiettivo. Sono ormai settimane che l'ex governatore di Bankitalia anticipa la possibilità di modellare il piano di quantitative easing sulla base dell'evoluzione del quadro congiunturale. E se nell'ultima riunione di settembre dell'Eurotower i tempi non erano ancora stati ritenuti maturi per una dilatazione del Qe sia in chiave quantitativa (attualmente lo shopping è di 60 miliardi di euro al mese), sia sotto il profilo temporale (deadline a settembre 2016), la proposta di un modello extra-large potrebbe invece essere al centro delle discussioni nel vertice del prossimo 22 ottobre, quando l'intero board sarà in trasferta a Malta.
Le condizioni per imprimere un'ulteriore svolta alla politica monetaria, peraltro, non mancherebbero. Draghi è stato chiaro intervenendo ieri al meeting annuale del Fmi in Perù: il contesto economico «è più difficile di sei mesi fa» e ci sono «rinnovati rischi» sull'economia dell'eurozona dal rallentamento dei Paesi emergenti. Dalla Cina al Brasile, il dilatarsi delle aree che presentano criticità impone una stretta sorveglianza alla Bce e, contestualmente, anche rapidità di azione. Anche perché la ripresa all'interno di Eurolandia è sorretta dalla gambe non proprio solidissime della domanda interna, mentre quella esterna «è più debole di quanto ci si aspettasse». Inoltre, sulla crescita continuano a pesare gli sforzi compiuti dagli Stati membri per implementare le riforme strutturali e per il riaggiustamento dei conti pubblici. A questo proposito, Draghi ha richiamato i Paesi più indebitati a «un'elevata discipina fiscale» per evitare di essere penalizzati quando l'attuale fase di bassi tassi di interesse giungerà a termine.
Nel complesso un quadro che, unito ai cali di prezzo delle materie prime, rischia di vanificare gli sforzi tesi a riportare l'inflazione su livelli più equilibrati. «L'inflazione è attesa rimanere molto bassa nel breve termine», conferma Draghi. Occorrerà aspettare il 2016 per vederla risalire. Sempre che si riveli corretto l'assunto «che gli attuali prezzi sul mercato dei future si traducano effettivamente in prezzi del petrolio più alti nei prossimi anni». Proprio la necessità di scongiurare lo spettro della deflazione potrebbe essere la leva primaria che il presidente della banca centrale europea userà, forse già questo mese, per chiedere una rimodulazione del Qe. Una proposta destinata, però, a trovare il fuoco di sbarramento della Bundesbank. L'opposizione tedesca a qualsiasi ampliamento del piano di acquisti è nota. A ribadire il nein è stato ieri, sempre dalla capitale peruviana, il ministro delle Finanze, Wolfgang Schaeuble, alle cui orecchie il tweet di Draghi non è arrivato certo come un cinguettio. La risposta è stata infatti ruvida: «Iniziamo a vedere più chiaramente i limiti di politiche macroeconomiche espansive.
L'effetto di tassi ultra bassi e del quantitative easing sulla crescita sembra meno potente di quanto atteso da molti esperti». Insomma: il bazooka è inefficace. E dannoso. La partita è aperta: la vincerà ancora SuperMario?
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