Piedi di piombo. La Federal Reserve scioglie il rebus-tassi: quest'anno saranno alzati solo tre volte, compreso l'aumento da un quarto di punto deciso ieri che colloca il costo del denaro all'1,5-1,75%. È dai dot plot, la mappa sull'evoluzione della politica monetaria disegnata con le previsioni dei governatori della banca centrale Usa, che risulta quasi sparita quell'accentazione hawkish, da falco, usata anche dal presidente Jerome Powell davanti al Congresso. Perde insomma peso l'ipotesi di quattro strette nel 2018, con alcuni membri dell'istituto però ancora favorevoli a questa opzione, che era fonte di grande preoccupazione per i mercati (+0,3% Wall Street in chiusura). Per l'anno prossimo, la Fed stima altri tre giri di vite, uno in più rispetto a quanto supposto finora.
Anche se tali indicazioni non sono scolpite nella pietra e sono suscettibili di variazioni legate agli sviluppi del ciclo economico, l'intenzione è quella di procedere con cautela malgrado la revisione al rialzo delle stime sul Pil, destinato a crescere nel 2018 del 2,7%, contro il 2,5% precedente, mentre per il 2019 è previsto un +2,4% (+2,1% in dicembre). Invariate invece le stime sull'inflazione, all'1,9% quest'anno e al 2% il prossimo. Durante il suo battesimo con la stampa, Powell ha parlato di «un altro passo verso una normalizzazione graduale della politica monetaria». Ma, replicando una frase dal significato aggressivo già usata in passato dal suo predecessore Janet Yellen, ha ricordato anche che «alzare i tassi troppo lentamente rischia di dovere costringere la Fed ad aumentarli repentinamente». Mettendo così a repentaglio l'espansione di un'economia che «gode del migliore stato di salute da dieci anni». Quanto alla riduzione del bilancio della Fed, procede «agevolmente». Altro fattore rassicurante, l'inflazione: «Dai dati non emerge che siamo sull'orlo di vedere un'accelerazione».
Eccles Building è però costretta a giocare con alcune carte - tutte cruciali - ancora coperte. Carte legate ad alcuni capisaldi trumpiani, come gli effetti del taglio delle aliquote sulle società e, soprattutto, l'introduzione dei dazi su acciaio e alluminio. Powell non si è pronunciato sulla possibilità di un'espansione del 3% dovuta alla riforma fiscale, per poi aggiungere che «i cambiamenti delle politiche commerciali non cambiano per ora l'outlook». No comment sul braccio di ferro con la Cina: «Non facciamo politiche commerciali e sono riluttante a fare commenti su un particolare Paese». In ogni caso, una possibile guerra commerciale «è un rischio di basso profilo che è diventato più rilevante nell'outlook».
Ma il capo della Fed sa bene come Wall Street, dove i prezzi «sono elevati rispetto a valori storici», sia ipersensibile rispetto alla minaccia di una conflitto globale sulle merci. Una destabilizzazione della Borsa provocata dalle tariffe punitive potrebbe costringere la banca centrale Usa a fare dietrofront sui tassi. Resta da vedere se, e quando, ciò si verificherà.
Se, da qui a giugno, i mercati andassero incontro a una correzione come quella di febbraio, la Fed potrebbe ancora governare la situazione con un altro giro di vite al costo del denaro. Per poi, nella seconda parte dell'anno, navigare a vista. Di sicuro, più Powell riuscirà ad andare avanti sulla strada dei rialzi, più ci saranno spazi per riportare indietro le lancette dei tassi in caso d'emergenza.
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