È un viziaccio antico, duro a morire. Un gene radicato nel dna che solo la Grande Crisi aveva temporaneamente modificato. Passata la buriana, i lupi di Wall Street sono tornati all'antico: bonus a pioggia, a gonfiar tasche sempre più larghe per ospitare premi per 31,4 miliardi di dollari lo scorso anno, il 17% in più rispetto al 2016 e non molto distanti dai 33-24 miliardi dell'ubriacatura ricchissima e collettiva del biennio 2006-2007, poi spazzata via dal virus dei mutui subprime. Un veleno che proprio quel tipo di cultura, spregiudicata e legata ai super-benefit, aveva contribuito a iniettare nelle vene dell'intero Paese.
Sembra passato un secolo da quando, era il 2006, Deutsche Bank lasciava a bocca asciutta i suoi manager. Una morigeratezza ora scaduta come un cartone di latte. Così, se l'America vive sulla pelle la compressione dei salari legata alla precarizzazione del lavoro al punto da far alzare il sopracciglio alla Fed, questa è una retorica pauperistica che non interessa a quel microcosmo di 175mila persone legate in simbiosi alla Borsa di New York, dove si assumono sempre più giovani pagati soprattutto in contanti e meno in stock option. Il salario medio (che include i bonus) nel 2016, l'ultimo anno per cui il dato è disponibile, è stato di 375.200 dollari, cinque volte il resto del settore privato. È lì dove si incassano le laute commissioni delle operazioni di merger&acquisition e dalla cartolarizzazione dei prestiti concessi ad aziende piene di debiti e poi le si converte, appunto, in assegni extra con parecchi zeri. Un luna park finanziario per adulti, la giostra del biglietto verde che gira instancabile anche grazie a Donald Trump e alla sua riforma fiscale. La rivoluzione delle aliquote, infatti, genererà ulteriori profitti aziendali: dunque, altri «dividendi» da spalmare sugli stipendi. Soprattutto di chi lavora in banca.
E non crediate che i recenti sbandamenti del tempio azionario mondiale siano delle picche conficcate nei portafogli dei manager. Al contrario: è proprio sui sell off e sulla volatilità che si prospera. Al pari di quell'altra abitudine insopprimibile che sono i buy back, il cui controvalore ammonta a 3.500 miliardi dal 2009 a oggi. Il riacquisto di azioni proprie è la benzina che negli ultimi anni ha contribuito a inflazionare i prezzi dei titoli, portando quindi in dote dividendi ricchissimi e bonus multi-milionari.
Anche quest'anno, nonostante il rialzo dei tassi, l'antica pratica sembra destinata ad andare avanti: buy back per oltre 150 miliardi sono già stati annunciati, e secondo le stime di JP Morgan nel 2018 le società dell'indice S&P500 dovrebbero finanziare operazioni per 800 miliardi. Avanti così. Fino alla prossima crisi.
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