L'America accelera, ma ancora non basta

«Scoraggianti, io avrei fatto di meglio». Giudizio tranchant, quello di Mitt Romney, sui dati di crescita del Pil Usa nel terzo trimestre. Si tratta di un 2%, superiore alle attese (+1,8%) e decisamente migliore dell'espansione dell'1,3% tra aprile e giugno. Un ritmo di sviluppo che l'Europa - Germania compresa - può solo sognare, garantito dal pilastro dei consumi privati, aumentati del 2% grazie allo shopping di auto e smartphone, e soprattutto dalla spesa pubblica (+3,7%), in particolare quella della difesa.
Solo propaganda elettorale, dunque, da parte dello sfidante di Barack Obama nella corsa per la Casa Bianca? Non proprio. Un tasso di espansione del 2% non è bastata ancora a garantire un pieno sostegno all'occupazione. Servirebbe almeno mezzo punto in più. Ma, nonostante i ripetuti stimoli della Federal Reserve, il punto di svolta ancora non si vede. Negli Stati Uniti l'esercito dei disoccupati conta infatti 23 milioni di persone. Troppe, e tutte forse decisive per far pendere l'ago della bilancia sul versante di Romney, dato dai sondaggi avanti di tre punti a livello nazionale sul rivale. Come la storia insegna, non è la politica estera che fa perdere la poltrona della Sala Ovale: è l'economia. E, guarda caso, l'ultimo dato in grado di influenzare gli elettori arriverà venerdì prossimo - a quattro giorni dall'appuntamento con le urne - e riguarderà proprio l'occupazione.
In prospettiva, preoccupa inoltre il probabile rallentamento dell'economia. La prudenza della Fed, che ha confermato di voler mantenere i tassi a zero fino a metà 2015, è sintomatica. Gli esperti temono che proprio l'elevato numero di senza lavoro, e a causa del prezzo della benzina in aumento, il passo di crescita possa incepparsi. L'altro spettro è il fiscal cliff, l'uno-due di aumento delle tasse e tagli della spesa che, senza interventi del Congresso, toglierà 600 miliardi di dollari dalle tasche degli americani a inizio 2013. Proprio la paura del precipizio fiscale sta già condizionando le imprese: chi lascia il posto non viene sostituito, e in alcuni casi si riduce la forza lavoro. Un report della National Association of Manufacturers mette in guardia: senza un nuovo accordo sul deficit, nel 2014 il tasso di disoccupazione schizzerebbe al 12% (7,8% in settembre) e i licenziamenti potrebbero arrivare a sei milioni.
Queste ombre sul futuro possono spiegare in parte il motivo per cui ieri le Borse (+0,3% Milano) non si sono lasciate entusiasmare dall'incremento del Pil americano. In Europa, del resto, molti tasselli del complicato puzzle della crisi vanno ancora sistemati. L'attenzione è concentrata soprattutto sulla Grecia dopo il pasticcio di mercoledì scorso, quando l'intesa tra il governo Samaras e la troika Ue-Bce-Fimi sembrava cosa fatta, salvo poi trovare una secca smentita nelle parole di Mario Draghi. Ieri, però, c'è stato un passo avanti: il 31 ottobre i ministri delle Finanze dell'euro zona si riuniranno in una teleconferenza per discutere le nuove decisioni che riguardano il programma di assistenza finanziaria.

Le attese sono per una via libera ai due anni di tempo in più all'esecutivo greco per raggiungere gli obiettivi di consolidamento del bilancio, sebbene rimangano aperte le questioni di come finanziare questo rinvio che costerebbe tra i 20 e i 30 miliardi. Il semaforo verde, fondamentale in vista dello stanziamento della nuova tranche di aiuti da 31,5 miliardi di euro, potrebbe però essere rimandato all'incontro che l'Eurogruppo terrà il 12 novembre a Bruxelles.

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