Ora la Fed non esclude una stretta in dicembre

La sindrome cinese non fa più paura: la partita sui tassi si gioca tutta in casa Decisivi saranno i dati su inflazione e mercato del lavoro. Wall Street incerta

Accantonato il mese scorso causa sindrome cinese, il rialzo dei tassi Usa in dicembre torna in agenda alla Federal Reserve. Il 2015 potrebbe quindi chiudersi con la prima stretta al costo del denaro dopo quella dell'ormai giurassico 2006. I mercati hanno subito fiutato ieri la possibilità di una sterzata monetaria in chiave (timidamente) restrittiva nel brevissimo periodo: l'euro ha battuto in ritirata sotto quota 1,10 dollari e Wall Street ha rapidamente annullato i guadagni messi a segno prima che Eccles Building diffondesse il comunicato ufficiale (la sintesi della due giorni di riunioni del Fomc), per poi tornare positiva (+0,6%).

Spesso un esercizio di equilibrismo linguistico, questa volta lo statement della Fed è stato subito decrittato. Al punto che ieri sera sono subito schizzate al 47%, dal 34% della mattina, le probabilità misurate dai future sui Fed Funds di un cambio di passo della politica monetaria americana. Naturalmente, l'istituto di Washington non ha messo nero su bianco che in dicembre romperà gli indugi, ma dal comunicato è sparito - un aspetto tutt'altro che secondario - ogni riferimento alle possibili ripercussioni sulla crescita esercitate dalle pressioni internazionali, in particolare dal rallentamento della Cina e dalle turbolenze delle economie emergenti. Timori che avevano invece pesantemente condizionato la riunione di settembre, quando ancora non era stato smaltito lo choc della triplice svalutazione dello yuan.

Ora, pur continuando a «monitare gli sviluppi del mondo», la partita sembra giocata solo all'interno dei confini domestici. In base all'andamento dell'economia Usa da qui all'ultimo mese dell'anno, la presidente Janet Yellen e il board decideranno come procedere. Al momento, la situazione è questa: la spesa delle famiglie è solida, gli investimenti fissi delle imprese sono in crescita a tassi sostenuti, il settore immobiliare è ulteriormente migliorato, ma il passo di crescita resta «moderato», come probabilmente confermerà oggi il dato sul Pil del terzo trimestre (+0,8% annualizzato, secondo le attese).

Non è comunque da escludere che la banca centrale Usa utilizzi anche le informazioni che arriveranno dalle trimestrali per corroborare le proprie scelte. I conti di giganti come Apple, Microsoft, Amazon e Google sembrano aver messo la sordina a quanti temevano un diluvio di bad news dalla Corporate America, ma alla fine le due “stelle polari“ che orienteranno la Fed saranno sempre le solite: lo stato di salute del mercato del lavoro e l'inflazione. Il passaggio-chiave del comunicato è infatti questo: «Nel determinare se sarà appropriato alzare il range dei tassi nel prossimo meeting, il Comitato valuterà i progressi - sia realizzati sia attesi - verso gli obiettivi di massima occupazione e inflazione al 2%». Anche se i componenti del Fomc si dicono «ragionevolmente sicuri» che i prezzi al consumo torneranno ad avvicinarsi al target fissato annuo nel medio periodo, l'attuale livello potrebbe ancora indurre la Fed a rinviare la stretta.

Quanto all'occupazione, il ritmo con cui vengono creati nuovi posti è «rallentato» e il numero dei senza-lavoro resta «stabile».

In definitiva, un copione ancora da completare ma che non esclude un possibile colpo di scena finale.

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