Petrolio, è la fine dell’Opec?

La rivoluzione dello shale oil lancia Usa e Canada e aggrava la crisi del cartello economico, sempre meno influente

Petrolio, è la fine dell’Opec?

Brent tra 55 e 56 dollari al barile, Wti appena sotto i 50. Sono le quotazioni odierne del petrolio, i cui indici di riferimento Usa ed europeo rimangono sotto la soglia dei 60 dollari, nonostante la leggera impennata dei prezzi, che Citigroup ha però etichettato come un “falso movimento”.

L’azienda finanziaria, in un recente report stilato da Edward Morse, ha addirittura prospettato un crollo della quotazione Wti, destinata a scendere fino ai 20 dollari al barile. Il mercato del greggio è in surplus di offerta e il trend continuerà nei prossimi mesi: per i primi 9 mesi dell’anno una contrazione della produzione viene ritenuta improbabile.

Mentre la produzione degli Stati Uniti è in crescita e Russia e Brasile pompano a ritmi da record, l’Opec annaspa. Il tracollo delle quotazioni, questa volta, potrebbe essere fatale per Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio, che dopo aver tirato una boccata d’ossigeno,sembra destinati ad annegare nel mare d’oro nero dopo averne dominato il mercato e controllato i prezzi per mezzo secolo.

Arabia Saudita e Iraq, per sopravvivere e preservare le rispettive quote di mercato, hanno tagliato i prezzi in Asia. Non basta. Il cartello economici dei 12 Paesi produttori (Algeria, Angola, Libia, Nigeria, Iran, Iraq, Kuwait, Qatar, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Ecuador, Venezuela) è minacciato dal decollo nord americano. L’Opec, ogni giorni produce più dei 30 milioni di barili fissati come soglia massima. Un taglio delle estrazioni, però, avvantaggerebbe gli Usa, capaci di produrre giornalmente 9.

1 milioni di barili: proprio gli States sono, al momento, il più grande produttore di petrolio al mondo grazie alla rivoluzione dello shale oil. E il Canada segue le orme dei cugini a stelle e strisce, aggravando la crisi del cartello.

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