Lo chiamano accordo, ma ha tutta l'aria di essere solo una tregua. Utile per tener buoni i mercati e dare un altro calcio al barattolo. Del resto, a Usa e Cina conviene prender tempo nella partita a scacchi del commercio. Così, sull'intesa raggiunta ieri fra Washington e Pechino, sottolineata con enfasi da entrambe le parti, va posata con cura la lente. Perché di polvere sotto al tappeto ce n'è ancora parecchia, forse troppa. Così come è ancora tanta la ruggine fra America e Europa causa aiuti ad Airbus, visto che Donald Trump sta meditando se imporre dazi fino al 100% su una serie di prodotti provenienti dal Vecchio Continente, tra cui anche il whisky irlandese e scozzese ed il cognac, dopo aver applicato lo scorso ottobre tariffe del 10% sugli aeroplani commerciali e del 25% sui prodotti agricoli. La punizione salirebbe così da 7,5 a 10 miliardi di dollari.
Quanto all'altra partita, quella con il Dragone, i punti fermi sono i seguenti: l'America rinuncia a introdurre, da domani, nuovi dazi su circa 160 miliardi di dollari di import cinese e taglia della metà - al 7,5% - le tariffe in vigore dal 15 settembre (valore, 120 miliardi); le altre misure punitive, pari a 250 miliardi, non vengono rimosse. Da parte sua, il Dragone cancella le nuove tasse che, sempre domani, avrebbero colpito oltre 3.300 merci a stelle e strisce. Questa è la sostanza, sufficiente per rendere euforico Donald Trump: «Abbiamo concordato un accordo di Fase Uno molto ampio con la Cina - ha spiegato in un tweet - . Inizieremo immediatamente i negoziati sull'accordo di fase due, piuttosto che attendere fino a dopo le elezioni del 2020. Questo è un affare straordinario per tutti».
Il problema è che non pochi osservatori hanno letto l'intesa come un segno di arrendevolezza del tycoon. Preoccupato dalla prevedibile reazione di Wall Street e dalle ripercussioni economiche derivanti dalla nuova ondata di dazi, The Donald avrebbe fatto molte concessioni in cambio di nulla, o quasi.
Il motivo è presto detto. Il deal è articolato in nove punti. Riguardano le parti più sensibili della disputa: dalla protezione della proprietà intellettuale ai trasferimenti di tecnologia; dall'acquisto di prodotti alimentari e agricoli ai servizi finanziari; dai tassi di cambio all'espansione del commercio.
Non un solo dettaglio sul contenuto dei singoli capitoli è però stato divulgato. Tutto pare scritto sull'acqua. E su una questione centrale come lo shopping dall'America di soia, carne di maiale e pollame i cinesi continuano a nicchiare. Durante la conferenza stampa di ieri, i negoziatori di Pechino hanno parlato in modo generico di voler aumentare «significativamente» gli acquisti di beni agricoli dagli Stati Uniti. Non c'è, insomma, alcun impegno a sottoscrivere i desiderata della Casa Bianca, che pretende uno shopping da 50 miliardi per recuperare consensi nelle aree rurali del Paese. Nella migliore delle ipotesi, la Cina potrebbe riportare il livello degli acquisti ai livelli del 2017. Ovvero 20 miliardi, contro i nove miliardi del 2018.
Ma se non c'è concordanza su un aspetto tutto sommato elementare nella sua meccanica come i rapporti agricoli, figuriamoci come può andare su una questione opacissima e priva di regole come i furti della proprietà intellettuale, casus belli per cui Huawei è stata «bannata» dagli States, e su un nodo altrettanto ingarbugliato qual è il trasferimento di tecnologia. Trump, tuttavia, è già proiettato al prossimo step: «Useremo i dazi rimanenti per negoziare la Fase 2 con la Cina».
Ma la fredda reazione di Wall Street (Dow Jones invariato a un'ora dalla chiusura) sembra confermare lo scetticismo dei mercati su una pace con ancora troppi punti oscuri. Ora troppi punti oscuri. Debole anche Milano (-0,26%) mentre il risultato elettorale inglese spinge Londra (+1,10%) in vista della ormai prossima Brexit.
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