Anche ieri l'euro ha aggiornato i minimi degli ultimi 20 anni chiudendo la seduta a quota 1,009 contro dollaro e anticipando di qualche mese la rincorsa al ribasso verso la parità che gli analisti si attendevano nell'ultimo trimestre dell'anno.
In un mercato generalmente meno movimentato rispetto all'azionario come quello dei cambi una rivalutazione superiore al 10% del biglietto verde nei confronti della moneta unica mette in tutta evidenza la difficoltà della fase economica in corso. I timori di un blocco agli approvvigionamenti di gas russo verso il Vecchio Continente, un'inflazione schizzata all'8,6% e una revisione al ribasso delle stime di crescita 2022 da parte della Commissione Ue (+2,7% la previsione di maggio) sono alla base della flessione.
Essendo la Bce ormai prossima a un rialzo di 25 punti base, è meno spiegabile l'attuale deflusso di capitali verso l'altra sponda dell'Atlantico che - occorre riconoscerlo - è stata più sollecita nell'attuazione della stretta monetaria. I Fed Funds oscillano tra 1,5 e 1,75% con un nuovo rialzo di 75 punti atteso nella prossima riunione. Tanto basta per rendere gli Usa più attraenti dello zero europeo? La risposta è negli esiti dell'Eurogruppo di ieri. «Le nostre politiche devono restare agili e flessibili, dobbiamo essere pronti ad aggiustare l'orientamento delle politiche di bilancio al rapido evolversi delle circostanze», ha detto il presidente dell'organismo Ue, Pascal Donohoe, evidenziando però che «le politiche nazionali di bilancio devono essere differenziate a seconda delle situazioni economiche degli Stati membri» e, analogamente, bisogna tenere sotto controllo l'inflazione. Insomma, Italia, Grecia, Portogallo, Spagna e anche Francia devono stare attente, gli altri hanno un po' più margine di manovra. Il che non è un bel biglietto da visita per i mercati.
Forse basta proprio questo per spiegare perché le Borse puntino sugli Usa a dispetto di un debito che ha sfondato i 30mila miliardi di dollari (il triplo circa dell'area euro) e di un'inflazione attesa all'8,8 per cento. A smorzare i facili entusiasmi ha pensato ieri un report di Ubs. «Nel lungo termine -scrivono gli analisti - il potenziale rialzista del dollaro sarà frenato dal rallentamento della crescita economica».
Il mercato già inizia a prezzare un nuovo taglio dei tassi della Fed nel corso del 2023. Ecco perché Ubs, forse anche per campanilismo, suggerisce il caro vecchio franco svizzero, valuta rifugia ed espressione di un Paese dove l'inflazione è al 3,4 per cento.
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