Rodolfo PariettiNegli Stati Uniti è proprio il momento delle decisioni storiche. Dopo la mossa di mercoledì scorso con cui la Fed ha alzato i tassi per la prima volta dal 2006, ieri è caduto un altro tabu ancor più granitico: il Congresso ha abolito il divieto sulle esportazioni di petrolio grezzo. Durava da ben quarant'anni, epoca di ancora fresca ribellione dei Paesi produttori nei confronti delle Sette Sorelle, con conseguente lievitazione dei prezzi tale da provocare il primo choc energetico e imporre la bucolica austerity di allora. Contenuto nelle legge di bilancio di fine anno (un provvedimento da 1.150 miliardi di dollari), lo sblocco è frutto di un agreement tra repubblicani e democratici. I primi si battevano da anni per rimuovere il divieto, allo scopo di creare nuovi posti di lavoro negli Usa e aiutare gli alleati dell'Est Europa ad affrancarsi dalla dipendenza dalla Russia. I democratici, però, non avevano mai ceduto. L'hanno fatto ora, in cambio di nuovi incentivi alle energie green, in particolare l'eolico e il solare. A esultare per l'abolizione sono soprattutto le lobby dell'ex oro nero: così si «rafforza il nostro futuro energetico» afferma Jack Gerard, presidente dell'American Petroleum Institute. Gli ambientalisti criticano invece la rimozione perchè potrebbe avere effetto sulle emissioni di anidride carbonica. In base alla nuova legge il presidente Usa, in futuro, potrà limitare le esportazioni petrolifere solo per motivi di sicurezza nazionale, di penuria, oppure se il prezzo del gregio dovesse superare di molto quello praticato sui mercati internazionali.Da un punto di vista strettamente produttivo il via libera non fa una grinza. Per la prima volta dal 1988, da due anni a questa parte gli States hanno un output nazionale superiore ai volumi importati grazie allo shale oil. Un settore redditizio, fino a quando l'ostinazione con cui l'Opec ha lasciato invariata l'offerta nonostante una domanda cedente ha fatto crollare le quotazioni dagli oltre 114 dollari dell'estate 2014 fino ai 34,4 di ieri a New York. A questi livelli di prezzo, le compagnie di shale sono abbondantemente in sofferenza, visto che il loro break even è attorno ai 70 dollari. Qualche analista non esclude che dietro il mantenimento dello status quo da parte del Cartello ci sia proprio la volontà di colpire il greggio Usa. Se la situazione non cambierà, con la catena di fallimenti delle società del fracking che si va allungando, difficilmente si avvererà la profezia dell'Aie secondo cui gli Usa diventeranno il principale produttore di greggio entro il 2020.
Proprio per il fatto che il greggio a stelle e strisce non è al momento più economico degli altri, la rimozione delle restrizioni all'export non si tradurrà in un immediato aumento delle vendite all'estero. I costi di trasporto potrebbero poi rendere anti-economico il petrolio greggio a raffinerie fuori dagli Stati Uniti. Una rivoluzione a metà.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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