Vanno eliminate le rigidità nei rapporti di lavoro In cambio, defiscalizzazione di premi e integrativi

I livelli di occupazione in Italia sono tra i più bassi dei 27 Paesi dell'Unione. Certamente la crisi internazionale si riflette negativamente sui nostri tassi di occupazione, ma gran parte dei problemi sono legati alla struttura dei salari, all'incidenza della fiscalità e degli oneri contributivi che gravano sull'intera retribuzione annua lorda, all'esiguità del welfare integrativo su stipendi e salari e al sistema di relazioni sindacali. É quindi inderogabile l'esigenza di modificare radicalmente i rapporti di lavoro al fine di aumentare l'occupazione.
La riforma voluta dal ministro Fornero si basa su un concetto (la forma di impiego prevalente è il contratto a tempo indeterminato) che tutti desidereremmo ma che è incompatibile e inconciliabile con l'attuale situazione di massima competitività dei mercati che richiede flessibilità e grandi capacità di adattamento per le imprese in termini di gestione delle risorse; la riduzione delle flessibilità in entrata e il quasi totale mantenimento delle rigidità in uscita che caratterizzano questa riforma, come avevamo preannunciato da questo giornale nell'agosto scorso, sono certamente responsabili di oltre 400mila nuovi disoccupati soprattutto tra i giovani e le donne. Secondo il Documento di economia e finanza il tasso di disoccupazione raggiunge il 10,8% nel 2012, per poi aumentare all'11,4% nel 2013 e attestarsi al 10,9%, forse, nel 2015.
Tutto questo si riflette pesantemente sui conti pubblici (minori entrate dirette, indirette e contributive e maggiori uscite); la gestione «prestazioni temporanee» dell'Inps (cig e cigs, indennità di disoccupazione e mobilità) ha fatto segnare un disavanzo che non si verificava da tempo con oltre 12 miliardi di passivo. Occorre quindi favorire l'occupazione, il che significa più entrate per cittadini e Stato, minori oneri assistenziali e per gli ammortizzatori sociali.
Si potrebbe ipotizzare quanto segue:
1) Per un periodo sperimentale di 5 anni il contratto prevalente è a tempo indeterminato sul modello inglese che prevede la risoluzione del rapporto di lavoro in qualsiasi momento per motivi produttivi o aziendali (flessibilità totale in uscita salvo che per motivi discriminatori-religiosi, di razza, sessuali ecc.); se il licenziamento è richiesto dall'azienda, al dipendente spetta una indennità pari a 1 mensilità per ogni anno lavorato.
2) Il contratto è individuale e potrebbe prevedere(ma è solo un esempio): il pagamento di 12 mensilità, per 40 ore per settimana e una retribuzione minima oraria pari a 8,5 euro fissata per legge e non per contratto; tutto il resto è lasciata alla contrattazione aziendale o territoriale. Il contratto prevede inoltre il pagamento di welfare integrativi deducibili sia per l'azienda sia per il lavoratore così suddivisi: 21 buoni pasto del valore di 10 euro cadauno, carnet e spese di trasporto per un importo pari a 6 euro giorno, tutti defiscalizzati per l'azienda; 3% della Ral (retribuzione annua lorda) ad un fondo pensione; compartecipazione a forme di assistenza sanitaria integrativa deducibili. Infine è previsto un premio di produzione annuo pari al 20% della Ral non soggetto a contribuzione sociale previdenziale e prestazioni temporanee per l'azienda non soggette a contribuzione sociale per il lavoratore, che su queste somme paga un'imposta sostitutiva simile a quella sui dividendi pari al 20%. Per l'azienda significa un costo massimo di 3.427 euro contro il costo della tredicesima e quattordicesima che è pari a 4.356; il dipendente anziché prendere 1.980 euro netti ne percepirà netti ben 2.841. Per ogni assunzione è infine previsto un credito di imposta per l'impresa pari al 10% della Ral.


3) Per il periodo sperimentale di 5 anni restano in vigore i contratti di collaborazione coordinata e continuativa, a progetto, le associazioni in partecipazione e le partite Iva con almeno due committenti, e i contratti a chiamata regolarizzati. Il totale del personale con questi contratti flessibili di cui sopra non può eccedere il 20% del totale della forza lavoro.
*Docente Università Cattolica - Coordinatore Giornata Nazionale della Previdenza

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