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La verità sui pedaggi delle autostrade

Negli ultimi 12 anni gli aumenti sono stati il doppio rispetto all'inflazione. A fine giugno un'altra batosta. I padroni dell'asfalto si dividono una torta che rende 800mila euro al km

La verità sui pedaggi delle autostrade

Baule stracarico di bagagli, moglie accaldata e insofferente a fianco, figli messi in condizione di non nuocere nei sedili posteriori della vettura: per milioni di italiani, oggi come vent'anni fa, le vacanze iniziano a un casello. Nel frattempo, però, ad essere cambiati sono gli incassi delle società autostradali: dal 1993 sono cresciuti di un bel 270%. E se si guarda all'aumento dei pedaggi nell'ultimo decennio o giù di lì, il passo è sempre più che sostenuto. Dal 2003 i rincari (vedi anche la tabella nella pagina successiva) hanno quasi doppiato l'inflazione: 43% la crescita delle tariffe, 25% quella dei prezzi nel loro complesso. E il prossimo 30 giugno potrebbe scattare un altro aumento, almeno se saranno accolte le richieste dei gestori: l'1,5% medio di fronte a un'inflazione sotto zero. Anche per questo le Autostrade italiane detengono un record europeo: insieme a quelle francesi garantiscono a chi le gestisce i ricavi annui più alti per chilometro, circa 800mila euro.

Le cifre sono state messe nero su bianco dall'Autorità per i Trasporti nella sua Relazione 2014 al Parlamento. E, di fronte ai numeri, le società autostradali, sempre sensibilissime e reattive quando si parla di pedaggi, hanno fatto buon viso a cattivo gioco: nessuna reazione pubblica («non è proprio il momento di mettersi a polemizzare con un'Authority»), ma molti mugugni in privato. Si fa notare la quantità di investimenti effettuati che devono ricevere una compensazione, il fatto che a crescere più dell'inflazione non sono state solo le tariffe autostradali, ma anche altri settori regolamentati come ferrovie e trasporti locali, che dei circa 7 miliardi annui che entrano nel portafoglio dei gestori più di 2 finiscono subito nelle casse dello Stato o dell'Anas, sotto forma di canoni, tasse dirette o indirette.

Nel mirino dell'Autorità dei trasporti non ci sono solo gli aumenti: in una recente intervista del presidente Andrea Camanzi sotto accusa è finita l'inefficienza complessiva del sistema, legata a un eccesso di frammentazione. A badare ai quasi 7000 chilometri della rete sono 24 concessionari, con accordi regolati da ben sei regimi tariffari diversi. Anche se poi, a ben guardare, la frammentazione si riduce quasi a un duopolio. Oltre all'Anas, che gestisce un migliaio di chilometri senza pedaggio (come la Salerno-Reggio Calabria), ci sono un manipolo di società legate agli enti locali (una fra tutte: l'Autobrennero controllata al 45% dalle province di Trento e Bolzano) e poi i due colossi: Autostrade per l'Italia, di proprietà dell'Atlantia della famiglia Benetton, e la Sias, della famiglia Gavio. Ai Benetton fa capo oltre il 50% della rete, ai Gavio un altro 20% abbondante. E guardando i conti dei due operatori industriali del settore l'impressione è una sola: le autostrade italiane sono un affare da califfi. Dal 2009 a oggi, nonostante la peggior crisi economica dal 1929, la Sias non ha mai chiuso un bilancio con utili netti inferiori al 14% dei ricavi. Un dato che farebbe ingolosire qualsiasi imprenditore. Discorso analogo si potrebbe fare per la società dei Benetton (nel 2014 ha registrato un utile di quasi 700 milioni, oltre il 15% dei ricavi). Merito dell'efficienza dei gestori, dicono i gruppi coinvolti. Merito di una politica tariffaria e di aumenti dei pedaggi sconsiderati, dicono i più critici. «Per le società il sistema è una cuccagna», commenta netto Giorgio Ragazzi, ex economista del Fondo monetario internazionale e docente all'università di Bergamo, collaboratore del sito lavoce.info.

In termini generali, gli aumenti dei pedaggi sono legati agli investimenti fatti dai gestori sulla rete che non portano nuovo reddito. Un esempio: una nuova normativa costringe a intervenire sulla segnaletica delle gallerie. Spese aggiuntive per cui i concessionari presentano il conto. Il problema è che le procedure previste per valutare costi e livelli di compensazione sono un vero capolavoro di opacità burocratico-amministrativa, difeso per di più come se si trattasse di un segreto militare.
Il punto di partenza è che le autostrade sono un «monopolio naturale». Tanto per capirci: sarebbe impossibile costruire un'altra Milano-Bergamo e creare una situazione di concorrenza. Come avviene in termini più o meno analoghi in tutto il mondo, lo Stato risolve il problema affidando «in concessione» a una società la gestione di un tratto di rete. In un contratto sono definiti gli obblighi del gestore (per esempio gli investimenti per mantenere e migliorare l'infrastruttura) e i suoi diritti. La remunerazione concessa, in pratica il pedaggio, deve consentire di trarre un giusto profitto dai capitali immobilizzati, deve tener conto, tra l'altro, dell'inflazione e del miglioramento del servizio offerto. La concessione ha scadenze di solito lunghe per consentire al concessionario di vedere ripagati i propri investimenti (quella dell'Autosole scade per esempio nel 2038). Chi definisce tutti questi elementi con le società interessate? La cosiddetta Struttura di vigilanza sulle concessionarie autostradali, qualche decina di funzionari che fino al 2012 facevano capo all'Anas e da allora sono passati in blocco al ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti. Dal gennaio 2014 è poi operativa un'autorità indipendente, la già citata Autorità dei Trasporti, sede a Torino, incaricata di verificare le condizioni di efficienza e di concorrenzialità del settore. Solo che in campo autostradale il nuovo controllore deve fare i conti con una regola un po' strana: può vigilare a 360 gradi solo sulle nuove concessioni, per quelle già firmate quel che è fatto è fatto. Non solo. Più o meno un anno fa, la stessa Autorità, che voleva farsi un'idea del comparto in cui opera, ha chiesto alla Struttura di vigilanza qualche dato e in particolare i cosiddetti piani economici e finanziari legati alle concessioni, quelli in cui vengono fatti i conti sui soldi, su quanto un gestore autostradale deve investire e su quanto gli sarà dato in cambio con gli aumenti dei pedaggi. Risposta del ministero: nei documenti ci sono i segreti industriali delle società e quindi non possiamo comunicarli a nessuno. In pratica: spese e pedaggi sono cose nostre, non gradiamo intromissioni o controlli.

Se si eccettuano, dunque, i primi interventi dell'Authority la partita delle autostrade si gioca tutta nel chiuso delle stanze della burocrazia romana e della politica. E non è un caso che gli operatori del settore in questo momento si interroghino non tanto sull'andamento dell'economia e del traffico, quanto piuttosto sull'atteggiamento che terrà nei confronti dei gestori il nuovo ministro dei Trasporti Graziano Del Rio, succeduto di recente a Maurizio Lupi, travolto dallo scandalo Incalza.
Quanto siano complessi i rapporti tra politici, burocrazia e operatori autostradali lo dimostra il pasticcio dell'articolo 5 del decreto sblocca Italia dell'autunno scorso. La norma stabilisce che, di fronte a nuovi investimenti e all'accorpamento di gestori di tratti autostradali contigui che producano più efficienza, lo Stato possa prolungare la durata delle concessioni. Il principale interessato è il gruppo Gavio che, attraverso varie società, gestisce tronchi autostradali vicini e che, per di più, deve anche fare i conti con il problema dell'Asti-Cuneo, costruita di recente a caro prezzo, ma che dal punto di vista economico è in difficoltà (vedi anche articolo a fianco). Il provvedimento è passato praticamente sotto silenzio, ma, secondo il già citato Giorgio Ragazzi, per gli operatori autostradali è «un regalo» che vale 16 miliardi, calcolati proiettando la differenza tra i nuovi ricavi e i nuovi costi che la proroga porta con sé. È anche una violazione dei principi europei, che stabiliscono che le concessioni vadano assegnate con una gara e non con prolungamenti di quelle in via di scadenza (e già per conto loro assegnate senza gara). Per questo il decreto stabilisce che sia necessario il via libera della Commissione Europea. In primavera il primo parere di Bruxelles arriva ed è, nei toni, perfino un po' incredulo: ci parlate di proroga in cambio di nuovi investimenti per oltre 10 miliardi. Ma a noi risulta che gli investimenti davvero nuovi siano meno di due. Gli altri li conosciamo già: erano previsti dalle concessioni precedenti ma non sono stati fatti.

Il sapore è quello di una classica furbata all'italiana.

E di fronte alla bocciatura di Bruxelles il pasticciato articolo 5, attualmente congelato, è diventato un povero orfanello: perfino l'Aiscat, l'associazione dei gestori, dichiara di non essere più interessata al provvedimento, superato da una nuova direttiva. Eppure solo pochi mesi fa qualcuno l'ha ispirato, qualcun altro l'ha scritto e c'è anche chi l'ha ufficialmente firmato.

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