L'amore per il calcio è spesso legato alla passione per i numeri: i risultati, le classifiche, le statistiche, le pagelle, perfino il fantacalcio fanno sì che anche chi con le cifre non ha confidenza in nome del tifo si trasformi in un abile matematico. Eppure probabilmente non c'è un mondo come quello del pallone più in balìa dell'irrazionalità, dei pregiudizi, delle assurdità. Al punto che, malgrado il football sia uno dei «business» più universali, è un povero illuso chi pretende di guadagnarci, a meno che non sia calciatore, allenatore o procuratore. Sono le tesi alla base di un libro davvero rivoluzionario, che esce alla vigilia dei Mondiali per sfruttarne il traino mediatico ma contiene verità che resisteranno ben oltre il mese di overdose pallonara che ci attende dall'11 giugno. Si tratta di Calcionomica (Isbn edizioni, 364 pagine, 24 euro), scritto da due personaggi di diversa formazione ma uguale passione per il calcio: lo scrittore Simon Kuper, nato in Uganda nel 1969, che ha già scritto due libri sul «lato b» del calcio, Ajax. La squadra del ghetto (2005) e Calcio e potere (2008), entrambi editi sempre da Isbn; e Stefan Szymanski, professore di Economia alla Cass Business School dell'Università di Londra e autore, tra l'altro, di Playbooks and checkbooks: an introduction to the economics of modern sports (2009). I due analizzano la storia e la geografia del calcio mondiale attraverso i numeri, facendo delle scoperte sorprendenti e conducendo i lettori attraverso una cartografia inedita - rivista e ampliata nell'edizione italiana con dati e statistiche sul calcio nostrano - per orientarsi negli aspetti sportivi, ma anche sociali e politici, del gioco più bello (e più imprevedibile, ma fino a un certo punto) del mondo.
Un gioco la cui efficienza, ragionando in termini puramente economica, è tutt'altro che ideale, inficiata com'è da tutta una serie di incrostazioni diremmo ideologiche di stampo tradizionale. Kuper e Szymanski scoprono ad esempio, dati alla mano, che da sempre è sopravvalutata la campagna acquisti e sono invece sottovalutati gli stipendi pagati ai giocatori. Mettendo in relazioni i risultati a lungo termine di alcuni dei principali tornei europei, si dimostra che esiste una correlazione quantificabile tra il 92 per cento (in Inghilterra) e il 93 per cento (in Italia) tra risultati e monte-stipendi, ciò che fa intuire che i giocatori migliori sono (giustamente) i meglio pagati e fanno vincere. Grandi sacche di sperpero ci sono invece nell'acquisto dei giocatori e soprattutto nella gestione successiva di quello che dovrebbe essere un investimento da ammortizzare: spesso per calciatori stranieri si spendono decine di milioni di euro e si risparmiano le poche decine di migliaia di euro per l'assunzione di una persona che si incarichi di risolvere i primi problemi pratici (la casa, la scuola dei figli, per Luther Blisset, indimenticato «bidone» del Milan anni Ottanta, perfino la ricerca degli amati «rice crispies») di giovani uomini che non parlano la lingua e che così non sono messi in condizione di rendere al meglio.
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