nostro inviato a Pechino
L’unica consolazione è sapere che il viso di Davide Rebellin ci avrebbe regalato quella smorfia triste e delicata anche se fosse stato d’oro il suo trionfo sotto la Muraglia. È la vita che va così, è la vita che s’accompagna a un dna scritto nel corpo e nei gesti e che scolpisce la persone. Con il viso gentile e minuto di Davide, al massimo si sorride, non si fa festa sfrenata.
L’Italia è d’argento, intasca la prima medaglia come ad Atene anche se qui si è un poco scolorita. La delegazione azzurra festeggia, ma i ragazzi ingordi e veri della bicicletta, loro no, loro volevano il metallo più pregiato a tutti i costi per ribadire che quando i cerchi sono cinque i più forti siamo noi. Tutti, da cittì Franco Ballerini a Paolo Bettini, Franco Pellizzotti, Vincenzo Nibali e Marzio Bruseghin, tutti i ragazzi della grande bici azzurra lo ripetono: «La medaglia resta importante, ma quando sai che il suo colore poteva essere d’oro, allora non ti va giù, allora ti rimane qualcosa che fa male dentro».
Il primo a farlo capire è proprio lui, Davide, il nostro argento dietro quel tamarro iberico e talentuoso di Samuel Sanchez, davanti al potente lungagnone svizzero Cancellara. Avrebbe mille ragioni per dire sono strafelice, invece ammette sincero come sempre che contava «soprattutto l’oro, l’oro che mi è sfuggito per meno di una ruota…». Più tardi, a Casa Italia, dopo aver ricevuto dai vertici della delegazione azzurra, Gianni Petrucci in testa, complimenti e buon compleanno per i trentasette scoccati proprio ieri, Davide si lascerà sfuggire ciò che gli stava sul groppo fin dal traguardo: «Io non sono un eterno piazzato, io sono anche un vincente, ricordatevelo, anche se è facile dimenticarlo visto che nella vita ho conquistato tanti tanti secondi posti… Però – e accennerà un sorriso – un secondo posto olimpico è proprio diverso».
Già, i Giochi. Il suo pensiero è subito corso a Barcellona 1992 quando, favorito fra i dilettanti, si sacrificò per il povero Fabio Casartelli. «Ho vinto anche per lui, ho pensato anche a lui» dirà arrossendo un poco in viso, e poi fiero: «Però, pensateci: Barcellona è lontana sedici anni, vuol dire che sono riuscito a mantenermi ad alto livello tutto questo tempo…». Vero. Di forma ne aveva e ne ha da regalare. Bastava vederlo azzannare le curve in salita lungo lo spettacolare circuito ricavato accanto alla Grande Muraglia, bastava osservarlo non perdere l’occasione – come invece ha fatto Bettini su Cancellara nell’ultimo chilometro – quando il lussemburghese Andy Schleck ha portato il suo attacco.
«Questa medaglia è la rivincita del ciclismo pulito, deve essere un esempio per tutti i giovani, è la prova che con il sacrificio, l’impegno e l’allenamento si può correre fino alla mia età e ottenere grandi soddisfazioni… Io sono fatto così, m’impegno, mi concedo al massimo due–tre giorni di relax all’anno, non di più. Il ciclismo è una disciplina che fa emergere tutte le qualità della persona, voglio che i giovani lo sappiano e a loro dedico la mia medaglia e spero che quanto visto sia un grande spot per questo sport… tanto più in un periodo brutto come questo».
Mentre Davide racconta, cittì Ballerini è dagli altri ragazzi per curar loro la gioia triste, soprattutto quella di Paolo Bettini, l’uomo che doveva e poteva stravincere ma che ha mancato l’appuntamento: «È una medaglia importante – dice il ct – ma è inutile negarlo: noi volevamo l’oro e visto come si era messa la situazione all’ultimo, avremmo potuto prenderlo. Se Paolo fosse stato pronto quando Cancellara è scattato: con lo svizzero, avrebbe recuperato i tre davanti e si sarebbe giocato la volata». Sottinteso, l’avrebbe vinta.
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