È un fatto: la causa del Tibet non interessa a nessuno. Troppi interessi commerciali con la Cina, e poi i tibetani non hanno l'abitudine di creare problemi mettendo bombe sugli aerei o nelle metropolitane per attirare l'attenzione sulla loro causa. Che tra l'altro non ha nulla di "progressista" e quindi non suscita emozioni nel mondo dei firmaioli di manifesti di solidarietà ai popoli di mezzo mondo che lottano per la libertà. Così anche se sono ormai ben più di cento i giovani tibetani che negli ultimi mesi si sono tolti la vita col fuoco nelle pubbliche piazze, si fatica a trovarne traccia sui giornali o in televisione. Anche perchè Pechino s'impegna a non fare uscire immagini di questi tragici suicidi, e a far capire che non gradisce comunque che vi si faccia pubblicità. Il governo cinese, addirittura, arriva ad accusare il Dalai Lama (che ha tutt'altro per la mente) di incitare a compiere simili gesti estremi definendo per questo il leader spirituale dei buddhisti tibetani un criminale.
L'ultimo episodio, secondo informazioni diffuse dai monaci del monastero di Kirti in esilio a Dharamsala nel nord dell'India (sede del "governo" tibetano) risale a ieri: Rinchen di 17 anni e Sonam Dhargey di 18, hanno urlato slogan per il Tibet libero e il ritorno del Dalai Lama, mentre le fiamme li avviluppavano. I due si conoscevano sin dalla scuola elementare, che hanno frequentato a Kyangtsa, la città nella quale hanno cercato e trovato la morte.
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