Gli americani scappano da Tunisia e Sudan

Gli americani scappano da Tunisia e Sudan

Non solo i diplomatici statunitensi e i loro familiari in fuga dalla Tunisia e dal Sudan. Il segno che il clima sia ancora surriscaldato in tutto il mondo arabo e che i rischi per gli occidentali siano ancora molto alti arriva dall'ombelico dell'ultima crisi mediorientale provocata o quantomeno correlata al video denigratorio su Maometto e l'islam: la Libia. Dal Paese cuore dell'attentato anti-americano più preoccupante dell'era Obama, l'Fbi si tiene lontano, almeno per ora. Sabato gli agenti del servizi segreti statunitensi sarebbero dovuti arrivare per far luce sull'attacco che ha portato all'assassinio dell'ambasciatore Usa Chris Stevens ma hanno infine deciso di restare fuori dal Paese. E ci resteranno «per un po' di tempo», fa sapere il presidente del Parlamento libico, Mohammed al-Megaryef. Troppo pericoloso mettere piede a Bengasi e dintorni per ora. «Faremo quello che dobbiamo fare per conto nostro - aggiunge Al Magaryef, dopo aver annunciato l'arresto di cinquanta persone coinvolte nell'assalto, un piccolo gruppo delle quali proviene dal Mali e dall'Algeria - Qualsiasi azione affrettata non sarebbe la benvenuta». Le indagini vanno avanti, ma solo fuori dai confini libici per gli 007 statunitensi impegnati nel limitante lavoro di sentire gli evacuati dopo l'attacco al consolato. Evacuati occidentali che si fanno sempre più numerosi. Ieri sono stati in 128, tra diplomatici e personale dell'ambasciata, i cittadini statunitensi a lasciare Tunisi, dove le autorità hanno tentato di dare un segnale chiaro agli Stati Uniti, facendo scattare le manette per un centinaio di sospetti, tra cui da ieri figura un pezzo da novanta, Mohamed Bakthi, uno dei predicatori dell'odio considerato fra i registi dei disordini, l'uomo che avrebbe stabilito il timing dell'assalto all'ambasciata e degli scontri che hanno fatto quattro morti. Ma il lavoro sarà duro. Se da una parte Tunisi mira a mostrarsi impegnata nella lotta al terrorismo, dall'altra c'è la certezza che la violenza abbia potuto dilagare a causa delle protezioni dall'alto, delle connivenze tra i salafiti che dirigono la piazza e il partito di governo Ennahda. Anche per questo da Washington arriva la richiesta ai cittadini americani di lasciare la Tunisia su voli di linea e di evitare viaggi nel Paese maghrebino come in Sudan.
Nonostante gli arresti in corso - dodici anche in Egitto - la violenza anti-Occidente resta un'opzione fin troppo prevedibile per il segretario alla Difesa americano Leone Panetta, certo che le proteste continueranno nei prossimi giorni, «se non più a lungo». Il Pentagono ha «dispiegato forze in diverse aree della regione per essere pronto a rispondere a qualsiasi richiesta ed essere in grado di proteggere il personale e le proprietà americane», ha spiegato Panetta. I fronti caldi restano tanti, forse troppi. Quattromila manifestanti hanno bruciato bandiere americane e urlato slogan anti-occidentali in Pakistan, dove si è anche registrata la prima vittima nella manifestazione di Karachi contro il film «blasfemo». E l'Afghanistan si conferma la spina nel fianco degli Stati Uniti in un momento delicatissimo nella lotta al terrorismo di matrice islamica. Un raid dell'Isaf a guida Nato, ha provocato la morte di sedici civili nella provincia orientale di Langham, tra cui otto donne. L'attacco ha provocato l'ira della popolazione in un momento in cui lo scontro tra militari occidentali e talebani si fa ancora più feroce e mentre si registrano diversi attentati contro i soldati americani da parte di agenti afghani addestrati dalla Nato (4 militari Usa uccisi ieri). E la paura cresce anche negli Stati Uniti.

A Chicago un diciottenne musulmano è finito in manette - una trappola dell'Fbi - dopo aver tentato di far saltare in aria una jeep, un'autobomba, finta, procuratagli dagli agenti sotto copertura, che lo hanno arrestato in flagranza di reato.

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