Assad schiaccia Aleppo E gli insorti disperati si fanno massacrare

La disfida di Aleppo, la madre di tutte le battaglie è iniziata. Da ieri elicotteri e artiglierie vomitano uragani di fuoco sui villaggi e sui sobborghi in cui resistono i ribelli siriani. E i tank snidano una dopo l'altra le postazioni antigovernative lasciandosi dietro decine di cadaveri. Più che una prova di forza degli insorti sembra l'inizio di un altro bagno di sangue. Stavolta però bisognerebbe chiedersi chi sia il responsabile di questa nuova mattanza annunciata. Liquidare il tutto come una nuova dimostrazione della crudeltà del regime è troppo comodo. Le forze ribelli stavolta non possono esser derubricate al comodo ruolo di vittime. Non paghe di esser state fatti a pezzi a Homs questo inverno, non contente di essersi fatte sloggiare da Damasco due settimane orsono, stanno facendo di tutto per farsi massacrare anche ad Aleppo. Di fronte a tanta insensata temerarietà persino la spietata reazione delle forze governative, pronte a sfruttare al meglio la supremazia garantita da artiglieria ed elicotteri, appare militarmente giustificata. Ma l'incoscienza dei ribelli non basta da sola a spiegare l'assurdo gioco al massacro. A dar retta a Mosca dietro al masochismo delle forze anti Assad c'è anche il perverso gioco della propaganda che da Washington ad Ankara, da Parigi a Doha continua a dar per agonizzante un regime che seppur non in splendida forma, è ancora in grado d'infliggere colpi durissimi ai propri nemici. «Gli amici occidentali e qualche nazione confinante continuano a incoraggiare e appoggiare la lotta armata al regime... non possono certo aspettarsi che il governo di Damasco stia a guardare», ricorda con una certa perfidia il ministro degli esteri russo Sergei Lavrov. Il cinismo dei cattivi consiglieri unito all'assoluta imperizia delle forze anti Assad è in effetti l'autentico catalizzatore di questo massacro annunciato
Gli insorti trincerati nei sobborghi sud occidentali di Salah al-Din e Hamdanieh e nei villaggi a est di Aleppo impiegano una strategia assolutamente suicida. Invece di agire in piccoli gruppi per ridurre le perdite e sfruttare al meglio la mobilità si concentrano in massa nelle zone dove godono di consenso popolare. Così oltre a offrire un comodo bersaglio ad elicotteri e mortai trasformano in bersagli anche i civili costringendoli a morire o fuggire. Non paghi di farsi ammazzare prosciugano insomma quel fiume indispensabile alla guerriglia per muoversi, come spiegava Mao, alla stregua di un pesce nell'acqua. Ma l'altro problema degli anti governativi è l'aridità di quel fiume. Ad Aleppo, cuore commerciale e industriale del paese, la popolazione seppure a maggioranza sunnita, e quindi teoricamente ostile al regime alawita di Bashar, guarda con scarsa simpatia a quei partigiani barbuti venuti a rovinar i loro lucrosi affari. Anzi per molti abitanti di Aleppo quei combattenti armati da Arabia Saudita, Turchia e Qatar sono pericolosi e inaffidabili. I primi ad ammetterlo sono i nemici di Bashar Assad. «Questa è una città complessa, la classe media e quella più agiata non ci vogliono. Per loro contano solo gli affari. C'è molto malcontento nei confronti di chi si ha dispiegato le proprie forze in città», spiegava al quotidiano inglese Guardian un abitante di Aleppo sostenitore dei ribelli. Non paghi d'essersi scelti un fronte dove soffrono di un evidente inferiorità strategica i rivoltosi cercano anche di scavar trincee in una città che non li vuole. A questo punto vien da chiedersi quale sia la strategia dei consiglieri militari di Arabia Saudita, Qatar e Turchia che, secondo indiscrezioni d'intelligence, coordinano l'offensiva ribelle da un centro di Adana, città turca a un centinaio di chilometri dal confine siriano. L'ultimo slogan emanato da quell'opaca retrovia suggerisce di trasformare Aleppo in una nuova Bengasi. Ma è l'ennesimo suggerimento stonato.

La Bengasi libica era ed è la capitale di una Cirenaica fieramente anti gheddafiana. Aleppo è la città simbolo del consenso garantito al regime di Basahr Assad non solo dalla minoranza alawita, ma anche da tanta parte della popolazione sunnita e cristiana.

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