Un bacio all'eroina Suu Kyi Così Obama corteggia l'Asia

Il primo viaggio all'estero di Barack Obama dopo la rielezione è nel sud-est asiatico, parte della nuova frontiera geostrategica della Casa Bianca, incentrata sulla Cina. È questo il messaggio che si ricava dalla missione che il presidente democratico degli Stati Uniti sta compiendo in questi giorni: proprio mentre israeliani e palestinesi si scambiano missili e la minaccia di un'invasione della Striscia di Gaza rischia di aggravare la crisi in una delle regioni più «calde» del pianeta, Obama si reca di persona in Thailandia, Birmania e Cambogia e trova il tempo di telefonare a Morsi e Netanyahu solo dopo la conclusione dei suoi impegni a Phnom Penh.
Rimane il fatto che si tratta, al di là di queste considerazioni, di Paesi più importanti di quanto appaia all'osservatore distratto. La tappa in Birmania in particolare, dove il presidente americano è sbarcato ieri in un delirio di folla, è davvero storica e rappresenta un successo di prima grandezza per la Casa Bianca. L'incontro personale anche piuttosto emotivo di Obama con Aung San Suu Kyi, figura simbolica ed eroica della lotta per la libertà in un Paese che l'ha perduta mezzo secolo fa, dimostra plasticamente quanto e in quanto poco tempo le cose siano cambiate nella Birmania-Myanmar tuttora governata dai generali, anche se hanno smesso la divisa. Un incontro avvenuto nella casa dove la donna politica che oggi guida l'opposizione è stata segregata per 15 lunghissimi anni agli arresti domiciliari, imposti unicamente per la sua tenace pretesa che nel suo Paese venissero rispettati i valori democratici.
Oggi il Myanmar è diverso e più aperto, tanto che Obama si è permesso nel suo discorso di chiamarlo anche col nome tradizionale Birmania, oltre che con quello a suo tempo imposto dalla dittatura per rimarcare il distacco dal passato coloniale. Al clima di violenta repressione di ogni opposizione che faceva somigliare il Paese a una piccola Cina è subentrato un percorso di riforme politiche, che hanno consentito elezioni semilibere. Ieri, parlando alla stampa insieme con Obama dal patio della sua casa di Rangoon, Suu Kyi ha però invitato a «essere molto cauti e a non farsi adescare dal miraggio del successo», perché «il momento più difficile in ogni transizione è quando pensiamo che il successo sia a portata di mano». Obama - che come la sua ospite è un Nobel per la Pace - non ha lesinato complimenti a Suu Kyi, che ha definito «icona della democrazia che ha ispirato il mondo intero» e ha esortato a proseguire sul cammino della libertà. Poi ha tenuto un coinvolgente discorso all'Università di Rangoon, la culla del dissenso su cui si accanì la repressione del regime. Ma il presidente americano ha anche incontrato il suo collega birmano, Thein Sein, già al vertice di una giunta militare, alla cui presenza ha detto che i passi intrapresi dalle autorità sono solo «i primi in quello che sarà un lungo viaggio», dicendosi tuttavia convinto che «un processo di riforme democratiche ed economiche» nel Paese possa portare allo «sviluppo di incredibili opportunità».
Lasciatosi alle spalle la Birmania, l'Air Force One di Obama è poi atterrato nella vicina Cambogia per l'incontro con l'autocrate Hun Sen, alla guida del Paese da tre decenni.

Obama ha cercato di far accettare all'uomo che non ha mai permesso di trasformare in una vera democrazia il Paese devastato da Pol Pot la sua dottrina già applicata in Birmania: riforme democratiche in cambio di generosa collaborazione americana. Ma non risulta che abbia ottenuto buona accoglienza, anzi.

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