Un bravo leader africano? Non si trova neanche a pagarlo. È l'amara morale che si ricava dalla notizia che per quest'anno sarà impossibile assegnare il Premio Ibrahim per la leadership africana, causa mancanza di candidati credibili.
In effetti è la terza volta in sei edizioni che il premio non viene assegnato, a sottolineare alcuni fra i motivi più importanti che spiegano il sottosviluppo dell'Africa: la corruzione, l'impreparazione e l'inaffidabilità dei leader politici del Continente. Il premio è stato istituito nel 2006 dal miliardario sudanese Mo Ibrahim, che ha fatto fortuna iniziando 15 anni fa il business della telefonia mobile in Africa. Una storia di successo, che Ibrahim vorrebbe fosse possibile per molti altri: per questo si è dedicato a promuovere il buon governo in Africa, una questione cruciale se si vuole che il Continente decolli. Ha istituito una Fondazione che porta il suo nome, con altri esperti internazionali ha creato un «Indice Ibrahim» per misurare il progresso dei Paesi africani; e ha infine istituito il premio dedicato agli ex leader democraticamente eletti che durante il loro governo hanno migliorato il livello di sanità ed l'educazione, fatto progredire lo stato di diritto e il rispetto dei diritti umani, favorito lo sviluppo economico e che soprattutto hanno trasferito il potere in modo democratico negli ultimi tre anni.
È una combinazione di fattori che evidentemente in Africa è merce rara malgrado - ha detto lo stesso Ibrahim nell'annunciare il non-premio di quest'anno - qualcosa si stia muovendo a livello economico. Ma è il panorama politico a essere desolante. Eppure il premio Ibrahim non è una pura onorificenza: al vincitore vanno ben 5 milioni di dollari (più del triplo dei premi Nobel) ai quali si aggiunge un vitalizio di 200mila dollari l'anno. Insomma, una bella pensione che permetterebbe una più che serena vecchiaia. Ma evidentemente non basta. Ad esempio, in febbraio il presidente del Ciad Idriss Deby ha regalato alla sua fidanzata oro, diamanti e gioielli per cinque milioni di dollari pagando poi una dote alla famiglia di lei per una cifra record di 21 milioni di dollari. La storia di Deby, che conta sui proventi del petrolio mentre il suo paese è tra i più poveri del mondo, è comune a tanti leader africani. Salito al potere nel 1990 con un colpo di stato, ha poi cambiato la Costituzione che limitava a due i mandati presidenziali per poter governare indisturbato fino alla fine dei suoi giorni. Cosa che è avvenuta a Melles Zenawi, morto questa estate dopo 21 anni da primo ministro dell'Etiopia. Zenawi, che aveva cacciato il dittatore Haile Mariam Menghistu, rappresentava una speranza per l'Etiopia, nella quale ha introdotto il multipartitismo, salvo poi rimangiarselo quando nel 2005 vinse l'opposizione. Eppure Zenawi era uno dei tre «giovani leoni» che secondo la Banca Mondiale sarebbero stati la base di un Rinascimento africano che doveva far impallidire il successo delle Tigri asiatiche, i paesi dell'Estremo Oriente usciti dal sottosviluppo. Gli altri due «leoni», il presidente ugandese Yoveri Museveni e quello eritreo Isayas Afeworki, sono ancora lì ma i loro paesi hanno ampiamente deluso le aspettative.
Ma Ibrahim non demorde: basta vittimismi, basta elemosinare soldi dall'Occidente, l'Africa «ha bisogno di leader all'altezza delle sfide che deve affrontare».
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