È una tempesta in un bicchier d'acqua capace però di trasformarsi in un terremoto internazionale. Da una parte rischia di restituire a Julian Assange l'immeritata fama di perseguitato, dall'altra minaccia di demolire l'immagine dell'Inghilterra trasformandola, agli occhi di molti, nel servizievole alleato degli Stati Uniti. A garantire il ritorno alla celebrità del menestrello di Wikileaks, famoso per aver sottratto messe di segreti dai mal custoditi computer del Pentagono, è un passo falso di Londra. Tutto inizia con la consegna all'Ecuador di una lettera del Foreign Office in cui si esige la consegna dell'australiano rintanato da otto settimane nell'ambasciata di Quito a Londra.
La missiva è già in sé eccessiva. Julian Assange, seppur accusato di violenza carnale ai danni di due donne svedesi, non è stato ancora né giudicato, né condannato. Quindi è formalmente innocente. La missiva lo tratta invece alla stregua di un pericolo internazionale e minaccia la sospensione dell'inviolabilità della sede diplomatica dell'Ecuador per garantirne la cattura. «Dovete sapere che il Diplomatic and Consular Premise Act del 1987 è la base legale in base al quale potremmo agire per consentire l'arresto del signor Assange nei locali dell'Ambasciata» specifica la lettera.
La reazione dell'Ecuador non si fa attendere. Dopo aver reso noto l'ultimatum inglese il ministro degli esteri di Quito Ricardo Patinò annuncia la concessione dell'asilo politico ad Assange. Il ministero degli Esteri inglese giura che non gli darà mai un salvacondotto per uscire dal Paese. Ma grazie al passo falso di Londra il menestrello di Wikileaks risorge dunque dalle sue ceneri e infligge un duro colpo all'immagine di Gran Bretagna, Svezia e Usa. L'appoggio più eclatante, sufficiente ad avvallare l'immagine del complotto internazionale, glielo regala Patinò. Il ministro ricordando i negoziati con Londra, Washington e Stoccolma sottolinea di non aver trovato nessuno pronto a garantirgli che l'estradizione in Svezia non sia una scorciatoia per far rimbalzare Assange negli Stati Uniti. Un «rimbalzo» che rischia di costargli un'incriminazione per spionaggio e, in teoria, la condanna a morte. Certo la concessione dell'asilo politico garantita da Quito non cambia di molto la situazione. Se la base legale è la legge del 1987 varata dal Parlamento inglese in seguito all'uccisione della poliziotta londinese Yvonne Fletcher, centrata dalle pistolettate di un diplomatico libico, allora il governo di Sua Maestà può ancora ordinare l'irruzione.
La legge venne scritta, infatti, badando bene a non infrangere i dettami dell'accordo internazionale del 1961 sulle sedi diplomatiche che prevede immunità e privilegi «non per garantire singoli individui», ma «per assicurare l'efficiente disbrigo delle funzioni di una missione diplomatica». L'ospitalità concessa ad Assange è sicuramente un privilegio accordato ad un singolo individuo. Su questa base gli inglesi potrebbero, dunque, ancora andare a prenderselo. Il problema vero sono le polemiche e le conseguenze di quel gesto. Sul fronte delle polemiche il primo ad imbracciare il bazooka è Baltasar Garzon, il discusso ex giudice spagnolo diventato oggi il difensore di Assange. Da magistrato Garzon firmò il mandato d'arresto internazionale che garantì, nel 1998, il fermo dell'ex dittatore cileno Augusto Pinochet arrivato a Londra per sottoporsi ad un intervento chirurgico. Un fermo vanificato dalla decisione inglese di far valere l'immunità diplomatica e garantire il ritorno di Pinochet.
Ma più delle polemiche peserebbero - come sottolinea l'ex ambasciatore britannico a Mosca Tony Brenton - le possibili conseguenze.
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