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I molti volti della crisi libica

A Tripoli nessun golpe organizzato. C’è l’esplosione di un paese sempre più frammentato tra vecchi clan tribali e nuovi signori della guerra

Un combattente ribelle fotografato vicino al fronte a Brega / 4.04.2011
Un combattente ribelle fotografato vicino al fronte a Brega / 4.04.2011

Con questo articolo, il think tank di geopolitica ed economia internazionale Il Nodo di Gordio inizia la collaborazione con Il Giornale. Il Centro studi, attraverso un’ampia rete di analisti, diplomatici, economisti ed esperti di studi militari e strategici approfondisce le dinamiche delle relazioni internazionali, tracciando gli scenari futuri che si profilano all’orizzonte.

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Nel giro di poche ore, da domenica a 18 maggio ad oggi, i media e le Cancellerie di tutto il mondo hanno dovuto prendere brutalmente atto di un dato di fatto per oltre due anni e mezzo tenuto ipocritamente nascosto: la Libia non solo versa in una situazione di guerra civile, ma, semplicemente, non esiste più come realtà statuale ed unità nazionale. Stato e Nazione che, per altro, sono sempre stati molto fragili, il paese nordafricano avendo conosciuto una effettiva unità politica solo in due momenti della sua lunga storia, sotto il dominio coloniale italiano prima, con la dittatura di Gheddafi poi. E questo perché già sotto il plurisecolare dominio ottomano, la Libia era di fatto divisa in tre realtà ben distinte –Tripolitania, Cirenaica e Fezzan – per altro dominate da potenti clan tribali locali che, spesso, rendevano puramente formale e vana l’autorità della Sublime Porta. Situazione che si venne a riproporre dopo la fine del colonialismo italiano con il governo di re Idris – eterodiretto da Londra e Parigi – che vide l’effimero tentativo di costruzione di uno Stato federale, presto abortito per le molte, troppe contraddizioni interne e infine sostituito dall’allora giovane Colonnello Gheddafi a capo di un pugno di ufficiali golpisti. Gheddafi che, in un primo tempo, tentò di esautorare i capi clan e di avviare la costruzione di un moderno Stato Nazionale su modello nasseriano; poi, però, dovette anche lui in un certo qual modo piegarsi di fronte alla realtà del paese, e governare giocando di continuo sulle rivalità e le alleanze tribali in una riedizione del classico Divide et Impera in salsa libica. Scelta obbligata che ha sancito, comunque, la fragilità di un qualsivoglia senso di identità nazionale libica, per tentare di rafforzare la quale il Colonnello giocava periodicamente la carta dell’anti-colonialismo ed investiva parte cospicua degli enormi proventi del gas e del petrolio nell’edificazione di uno Stato Sociale, con scuole, sanità, previdenza distribuita a pioggia. Tutto questo, però, senza mai riuscire davvero a scalfire la struttura tribale di una società, dove anzi, nel tempo, gli antichi clan familiari si sono trasformati in gruppi di interesse e collettori di reti clientelari. Sino a dimostrare, dopo la caduta di Gheddafi, come siano di fatto depositari anche della forza militare. E, in verità, non da oggi, visto che le Forze Armate libiche sono sempre state debolissime anche sotto il governo del Colonnello, che preferiva affidarsi ad una complessa rete di milizie “private”, temendo che un esercito troppo forte potesse, alla lunga, scalzarlo dal potere.

Per questo, quando è giunta la notizia che il colonnello Mokhtar Fermana, autoproclamatosi comandante della Polizia Militare, ha fatto irruzione nella sede del GNC Congresso Nazionale Generale a Tripoli, dichiarandolo decaduto, e che, quasi contestualmente, le truppe fedeli ad un generale in pensione, Khalifa Haftar, hanno attaccato, a Bengasi, le milizie jihadiste di Ansar al-Sharia – che è considerata legata alla rete di al-Qaeda – si è parlato con troppa fretta di una sorta di “soluzione egiziana” della crisi libica. Infatti non ci troviamo di fronte ad un golpe organizzato, né ad un Esercito in grado di prendere in mano la situazione, ma solo all’esplosione di un paese sempre più frammentato che vede sulla scena molti, diversi, attori, dai vecchi clan tribali ai nuovi Signori della Guerra sorti in questi ultimi tre anni, dalle milizie jihadiste a quelle delle minoranze etniche, berberi, tuareg e tebu. Un guerra di tutti contro tutti che ha per posta sia il controllo dei giacimenti di gas e petrolio, sia la spartizione dei ricchissimi Fondi Sovrani libici (in particolare il Libian Investment Authority) che possiedono quote azionarie di molte banche ed aziende strategiche in tutto il mondo. Fondi Sovrani che, dopo la morte di Gheddafi, sono restati senza padrone e senza chi li diriga.

Facile dedurre come il perdurare e l’incancrenirsi – che purtroppo appare inevitabile – di questa situazione di guerra civile diffusa possa avere effetti devastanti sugli scenari geopolitici di tutto il Nord Africa e del Mediterraneo. A cominciare dalla crescente destabilizzazione dei paesi della regione sub-sahariana, che tradizionalmente riflettono la situazione della Libia, e con inevitabili, devastanti contraccolpi sui flussi migratori dall’Africa verso le coste europee e, segnatamente, italiane, che in prospettiva si prevedono sempre più massicci ed incontrollabili. Senza dimenticare le inevitabili, prossime ricadute sui mercati del gas e del petrolio, soprattutto a fronte della contestuale crisi dei rapporti fra Occidente e Russia a causa dell’Ucraina.

Dovremo rimpiangere Gheddafi, dunque? Più che altro dobbiamo prendere atto dell’avventurismo della politica voluta, a suo tempo, per interessi particolari da Parigi e Londra che ha portato – con l’acquiescenza dell’Amministrazione Obama – alla fine del Colonnello ed all’attuale caos. Una politica che l’Italia ha dovuto subire obtorto collo, con un Berlusconi reso impotente dagli attacchi della magistratura e i ministri degli Esteri e Difesa, Frattini e La Russa, che si adeguarono forse troppo rapidamente ai Diktat dell’Eliseo. Finendo con l’andare – ancora una volta dopo i casi della Serbia e del Kosovo – a danneggiare gravemente i nostri interessi strategici.

* Andrea Marcigliano, senior fellow del think tank “Il Nodo di Gordio”
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