RomaPasso deciso, sguardo fiero, uniforme impeccabile nonostante la pioggia. Salvatore Girone e Massimiliano Latorre ieri alle 15 hanno varcato il cancello della Procura Militare di Roma. Con la convocazione da parte del procuratore Marco De Paolis inizia ufficialmente l'esercizio della giurisdizione italiana sui due marò, accusati dalle autorità indiane di aver ucciso due pescatori indiani, scambiandoli per pirati.
Il fascicolo sul caso è stato aperto qualche tempo fa, ma solo ieri si è appreso che i due fucilieri sono chiamati a rispondere di «violata consegna aggravata» e «dispersione di oggetti di armamento militare». L'iscrizione nel registro degli indagati risale a subito dopo la morte dei due indiani. Ma il faldone è rimasto a lungo vuoto, perché l'India si è rifiutata di accettare le richieste di rogatoria internazionale e di consegnare gli atti all'Italia. Non è stato possibile nemmeno acquisire le perizie balistiche compiute in Kerala, secondo le quali i fucili che hanno sparato non erano quelli in dotazione a Latorre e Girone. E c'è poco da stupirsi, se si pensa che addirittura il giudice di quello stato indiano ha vietato la traduzione dei documenti d'indagine, scritti in malayalam, lingua oscura anche alle autorità di Nuova Delhi. Ma ora l'Italia dice basta e fa sapere di essere pronta al braccio di ferro, dopo aver cercato inutilmente di arrivare a soluzioni pacifiche. Fonti di governo puntualizzano infatti che l'incidente sarebbe avvenuto a 20,5 miglia dalla costa, dunque in acque internazionali, che quando il comandante della petroliera «Enrica Lexia» ha accettato l'invito della Guardia Costiera locale a rientrare nelle acque territoriali indiane si trovava a 30 miglia dalla costa e che il capitano del peschereccio «St. Antony» al momento dell'incidente dormiva e ha potuto identificare da quale imbarcazione provenissero i colpi. «Ai nostri marò, poi, non è stata riconosciuta nemmeno l'immunità funzionale - sottolineano dall'esecutivo -. Li hanno trattati come detenuti, nonostante il 18 gennaio la Corte Suprema indiana avesse stabilito che il fatto era avvenuto in acque internazionali quindi il Kerala non era competente a giudicare e il caso doveva passare a un Tribunale Speciale chiamato a decidere sulla giurisdizione. Questo non è avvenuto. Ora chiediamo l'apertura di un arbitrato internazionale».
Una cosa è certa: i due marò il 22 marzo non rientreranno in India. Verranno giudicati in Italia. Una scelta che piace poco al premier indiano Manmohan Singh che in una lettera al governatore del Kerala, Oommen Chandy, ha parlato di un'ombra nei rapporti con l'Italia. «Non abbiamo tradito la fiducia delle autorità di Nuova Delhi - risponde il nostro governo - la stessa Corte Suprema indiana nei permessi fatti firmare ai marò per tornare in Italia spiegava che questo avveniva a condizione che in Italia fosse rispettato l'esercizio del potere costituzionale. Questo stiamo facendo: la nostra costituzione garantisce il giusto processo vietando l'estradizione dei cittadini per essere giudicati da un Tribunale, come quello Speciale di Nuova Delhi, non ancora costituito o in paesi dove vige la pena di morte». Intanto ieri Girone è stato sentito per 3 ore dalla Procura militare, che sta valutando di passare gli atti a piazzale Clodio, dove è stato aperto un fascicolo per omicidio volontario.
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