Obama-Romney, ultimo round su Bengasi e rischio terrorismo

Il ring era a Boca Raton in Florida, ma un round fondamentale s'è combattuto sul fronte di Bengasi. Un round che Obama non poteva permettersi di perdere. In gioco c'era la sua capacità di garantire la sicurezza nazionale. Ma quello di Bengasi non era certo un round facile da vincere perché la versione della Casa Bianca sulla notte dell'11 settembre, costata la vita all'ambasciatore Stevens è una versione assai poco limpida. Non a caso Mitt Romney aveva deciso di sfruttare quel buco nero per sfondare le difese del presidente nell'ultimo decisivo dibattito prima del voto del 6 novembre. E l'affondo potrebbe anche rivelarsi fatale visto che i sondaggi pre dibattito davano i contendenti in assoluta parità al 47% con gli indecisi ridotti al 5 per cento.
I segnali di un'offensiva incentrata sui punti oscuri dell'attacco al consolato a Bengasi erano nell'aria. I repubblicani già domenica avevano enfatizzato le contraddizioni della versione presidenziale definendole sintomatiche dell'incapacità di Obama di offrire garanzie sul fronte sicurezza. «Gli esponenti dell'amministrazione hanno miseramente fallito: questo sarà un caso di studio per gli anni a venire, il caso emblematico d'una leadership disastrosa e di un tracollo a tutti i livelli nel settore della sicurezza» sottolineava il senatore repubblicano Lindsey Graham. Il nocciolo del contendere erano le discrepanze tra la versione ufficiale dell'assalto, presentata il 16 settembre dall'ambasciatore all'Onu Susan Rice, e le testimonianze sul terreno.
Mentre la Rice riduceva il tutto ad un attacco spontaneo ed imprevedibile generato dalla diffusione di un film irriverente sul Profeta le prove raccolte a Bengasi fanno pensare ad un'operazione terroristica organizzata nei minimi dettagli. In particolare l'eliminazione della «task force» della Cia annientata a colpi di mortaio mentre muoveva da una base fortificata verso il Consolato fanno pensare a un'operazione preparata con largo anticipo. Secondo Romney l'amministrazione avrebbe ignorato i rischi di un'offensiva organizzata nell'anniversario dell'11 settembre per vendicare, come promesso dal capo di Al Qaida Ayman Al Zawahiri, l'uccisione di Abu Yahya Al-Libi, il numero due dell'organizzazione, ucciso a giugno in Pakistan da un aereo senza pilota. Proprio l'origine libica di Abu Yahya avrebbe spinto Al Qaida a studiare una vendetta localizzata a Bengasi. Infilandosi nei misteri libici Mitt Romney ha rischiato però un insidioso effetto boomerang. La sua campagna elettorale è segnata dagli svarioni inanellati ogni qualvolta s'è cimentato in politica estera.
Non a caso il New York Times di lunedì gli consigliava una serie di dichiarazioni «utili» a bilanciare i danni causati da quelle prese di posizione avventate che hanno contribuito a cucirgli addosso l'immagine di candidato zelantemente filo israeliano, ostinatamente anti palestinese e ferocemente anti islamico.

Per una volta Mitt - suggeriva ironicamente il quotidiano - non si lasci sfuggire l'occasione di dire qualcosa di carino sui palestinesi, tendere una mano al presidente egiziano Morsi, aprire le porte ad un accordo sul nucleare iraniano ed evitare di correre a testa bassa verso l'intervento in Siria.

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