A Tripoli è iniziato il processo del decennio contro Saif al Islam, il figlio più noto del defunto Muammar Gheddafi, il tenebroso capo dei servizi segreti del colonnello Abdullah Senussi, l'ex primo ministro Al-Baghdadi al-Mahmoudi e altri 35 gerarchi del deposto regime libico.
Peccato che Saif, la «spada dell'islam», non fosse in aula alla prima udienza a porte chiuse nella capitale. Lo tengono stretto i miliziani di Zintan, la città nel nord ovest del Paese, che avevano catturato il prigioniero eccellente nel 2011. Ieri hanno mostrato il figlio di Gheddafi dietro le sbarre e una rete metallica nella città fra le montagne a 160 chilometri da Tripoli. Dimagrito, barbetta curata, non più completamente pelato, con i soliti occhialini e una tuta blu da detenuto assomiglia a un trofeo. Poche ore prima il procuratore generale Abdul-Kader Jumaa Redwan garantiva che il giovane Gheddafi sarebbe stato alla sbarra a Tripoli. In realtà Saif al Islam è la pedina più preziosa della milizia di Zintan ai ferri corti con il governo centrale sulla spartizione dei proventi del petrolio in Tripolitania.
«La spada dell'islam», classe 1972, era il delfino in pectore del regime istruito a Vienna e a Londra. Immortalato con Massimo D'Alema, il rampollo ha favorito la firma del padre e di Silvio Berlusconi sul trattato di amicizia con l'Italia. Si è trasformato in erede combattente con l'inizio della rivolta in Libia. Un bombardamento della Nato gli ha portato via un dito, ma alla fine è stato catturato nel deserto libico meridionale dagli uomini di Zintan. Saif è rincorso da un mandato di cattura per presunti crimini di guerra dalla Corte penale internazionale. I libici, che durante la rivolta appoggiata dai bombardieri Nato avevano inneggiato alle accuse, non hanno mai voluto consegnare il figlio di Gheddafi alla giustizia de L'Aia pur avendo promesso di farlo. Stesso discorso per l'oscuro Senussi, l'ex boia dei servizi segreti del colonnello, ricercato pure lui dalla Corte penale. I gerarchi del passato regime sotto processo a Tripoli rischiano la pena di morte. Senussi, catturato in Mauritania mentre fuggiva, è sposato con la cognata di Gheddafi. Il truce capo dei servizi libici è considerato responsabile del massacro di 1200 prigionieri nel famigerato carcere di Abu Salim a Tripoli.
Le accuse contro i gerarchi del regime contenute in 40mila pagine sono durissime: bombardamenti indiscriminati, esecuzioni sommarie, trasferimenti forzati, tortura e maltrattamenti. Trentasette imputati, tutti con le tute blu che ricordano da lontano quelle arancioni di Guantanamo, sono detenuti nel super carcere di Hadba, nella capitale, dove si svolgerà il processo. Il ministro della giustizia Salah Marghani ha garantito che «non sarà un procedimento della serietà di Topolino come nel precedente regime».
Il terzo pezzo grosso che rischia la pena di morte è l'ex primo ministro di Gheddafi durante la rivolta, Al-Mahmoudi. Un fantoccio del colonnello fuggito in Tunisia quando il regime è crollato e poi estradato. Altri gerarchi alla sbarra, molto noti, sono Bouzid Dorda e Abdelati Al-Obeidi. Il primo era ambasciatore all'Onu fino a quando Gheddafi non lo nominò capo dello spionaggio all'estero. Al Obeidi è stato l'ultimo ministro degli Esteri del colonnello.
Il processo a Seif el Islam a Zintane è stato aggiornato al 12 dicembre e quello a Tripoli al 3 ottobre. L'impressione è che la resa dei conti giudiziaria si trasformi in mera vendetta.
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