Siria addio. Era l'ultimo sacrario del Medio Oriente, l'ultimo bozzolo capace di preservare da guerre e fanatismo vestigia e monumenti del passato. Ma si sbriciola giorno dopo giorno. E con lei monumenti e tesori testimonianza di una storia iniziata con Abramo, passata attraverso le conquiste romane, la predicazione di San Paolo, la nascita dell'Islam, le crociate e il periodo ottomano. Millenni che non valgono un soldo bucato né per le milizie ribelli, né per i militari. Ad Aleppo, uno dei più antichi centri abitati della terra, fondato cinquemila anni prima di Cristo, la guerra minaccia una memoria storica patrimonio di tutta l'umanità. «Al Qaala» - la cittadella-fortezza in piedi fin dal tempo degli ittiti e conquistata solo da Tamerlano e da Hulaghu Khan, nipote di Gengis Khan - rischia di finir sbriciolata. Una granata ha già danneggiato le sue antiche passerelle in pietra ed il Consiglio Nazionale Siriano, principale organizzazione dell'opposizione, ha subito accusato l'artiglieria governativa. Per Ali Cheikhmoush, un archeologo siriano che monitora da Strasburgo i danni inferti al patrimonio artistico del suo Paese, la responsabilità è dei ribelli colpevoli di aver fatto esplodere uno dei cancelli della cittadella per dare la caccia ad alcuni cecchini.
Fuori Aleppo i danni sono anche più gravi. La cappella del Qal'at al-Hosn, il leggendario «Krak dei cavalieri» d'epoca crociata, è stata danneggiata dall'artiglieria durante gli scontri per Homs. Altrove le brigate ribelli non hanno esitato a trasformare in bunker le rovine di antiche acropoli nell'infondata convinzione che le truppe governative non le avrebbero colpite. Il massiccio calcareo tra Aleppo, Antiochia e Apamea, dove sorgono le cosiddette «città morte», è da mesi un campo di battaglia. Tra i ruderi degli antichi centri commerciali, passaggi obbligati per le carovane d'era bizantina, si scontrano esercito e nemici del regime.
Intanto proseguono gli scontri: nella notte la battaglia avrebbe coinvolto anche l'esercito giordano a Shihab-Turra, terra al confine tra Siria e Giordania, in una zona in cui transitano i profughi che lasciano la Siria. Ne ha dato notizia l'agenzia Reuters, citando un oppositore di Assad che avrebbe assistito agli incidenti tra i blindati dell'esercito siriano e di quello giordano. E con il susseguirsi degli scontri ed il deteriorarsi della sicurezza si moltiplicano anche le scorrerie dei razziatori. In Iraq nel 2003 attesero la caduta di Saddam per depredare il museo nazionale di Bagdad e far bottino nei siti dell'antica Babilonia. Stavolta sono già in movimento. Ad Apamea i predatori sventrano con i bulldozer i pavimenti di epoca romana per trafugare mosaici millennari. Dal decumano dell'antica necropoli sono già scomparsi due capitelli smontati dai colonnati e caricati sui camion. Quel che più fa tremare gli archeologi è il fanatismo dei nemici islamici di Bashar Assad. Se, come sembra, molti dei gruppi armati sono guidati da comandanti di fede jihadista allora in Siria si potrebbe ripetere quanto già successo a Bamyan in Afghanistan e a Timbuktu, l'antica capitale del Sahara. A Bamyan la furia iconoclasta dei talebani porta, nel marzo 2001, alla distruzione con l'esplosivo delle due enormi statue dei Buddha scolpite nella montagna 1500 anni prima. «I musulmani devono sentirsi orgogliosi di abbattere gli idoli. Distruggendoli abbiano reso onore a Dio», spiega allora il mullah Omar, profeta e leader del regime talebano in Afghanistan. Un concetto reiterato in questi giorni dai capi di Ansar al Dina, l'organizzazione fondamentalista che ha preso il controllo di Timbuktu dopo la rivolta tuareg e la secessione del nord del Mali. «La distruzione è un ordine divino», dichiaravano ai primi di luglio i portavoce dell'organizzazione spiegando la devastazione della «cittadella dei 333 santi», l'antico mausoleo in cui venivano venerati i profeti della tradizione islamica sufi. Quanto a furia iconoclasta neppure i ribelli siriani vanno comunque per il sottile. Il vescovo francese Philip Tournyol Clos, reduce da una visita alla città di Homs, descrive con toni allarmati le distruzioni inferte dai ribelli ai quartieri di Diwan Al Bustan e Hamidieh, sedi un tempo di chiese e centri vescovili.
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