Falsa povertà:

Marcello D’Orta

Il grande esodo estivo non è ancora cominciato, ma entrare nelle agenzie di viaggio è già diventata un'impresa. Tutti si precipitano a prenotare il viaggio che li porterà nelle grandi capitali europee o sopra un atollo del Pacifico. E i tour operator promettono sconti favolosi a chi, incurante delle 300.000 vittime dello tsunami, sceglie di trascorrere le vacanze a Sumatra e nello Sri Lanka.
Anch'io, ieri, sono entrato in un'agenzia di viaggi, ma molto più modestamente per acquistare un biglietto ferroviario che mi porterà a Caserta, dove mi aspettano per una conferenza intitolata «Ma che ne parliamo a fare?».
Tutti sono concordi nel sostenere che in giro c'è crisi, che l'euro ha raddoppiato i prezzi, e che se si va di questo passo succederà «qualcosa di brutto» in Italia. Questo «qualcosa di brutto» non si sa bene cosa potrà essere: una rivoluzione francese, un remake delle Quattro Giornate di Napoli, un assalto ai forni di manzoniana memoria ecc. Di sicuro si sa una cosa: ci scapperà almeno un morto. Però qualcuno mi spieghi com'è che appunto le agenzie di viaggio sono superaffollate, e la gente vi entra già col salvagente e il costume da bagno. Oggi, andare alle Seychelles o alle Maldive, trascorrere una settimana a Parigi o Praga, non è più l'eccezione ma la regola. Quando ero studente, e puntualmente il professore ci assegnava il tema: «Dove hai trascorso le vacanze», una parte dei compagni non andava a scuola, perché d'estate era rimasta in casa e aveva vergogna di farlo sapere (tra questi poveracci c'ero anch'io), un'altra parte inventava di sana pianta (e si faceva a chi le sparava più grosse) e una minoranza diceva la verità: Torregaveta, Licola, nel migliore dei casi Ischia o Procida.
Oggi tutti aspirano a lasciare al più presto la propria casa, come fosse un guscio ingombrante che si è tenuto addosso per undici mesi, e a momenti ci schiacciava. Ha scritto Domenico Rea: «La casa non è più il luogo di raccolta e di incontri. Serve solo per compiervi gli atti animaleschi e per sentire cosa dice e cosa ordina la televisione e per avere il tempo di mangiare». Un luogo divenuto dormitorio e mensa, insieme dei mattoni che ci ripara dalle intemperie, cubo che facciamo bello solo per vantarci coi nostri amici e parenti. Ma la casa ha una sua anima, e la si scopre soprattutto d'estate, quando gli altri membri della famiglia se ne vanno in vacanza, e si resta a tu per tu con lei. Nell'insolita quiete che vi regna, ogni stanza e ogni oggetto - per dirla con Tumiati - assumono una vita e una personalità nuove che richiamano la nostra attenzione. Ci si ritrova a vagare di stanza in stanza come esploratori alla scoperta di nuovi continenti o come un pellegrino che torni a visitare uno dopo l'altro vecchi amici con il senso di colpa che deriva dalla consapevolezza di averli trascurati, misto alla curiosità di scoprire finalmente la loro indole vera, la loro essenza più intima.
Mio padre, che una villeggiatura non poté mai permettersela, l'amava la casa, e aspettava l'estate per farla più bella: aggiustare una porta, una sedia, un tavolo.
L'immagine «estiva» di mio padre è questa: seduto fuori il balcone di un vecchio palazzo del centro storico di Napoli, coi pantaloncini un po' stinti e i sandali slacciati, a soffiarsi con un cartone e a pensare.


E la casa sembrava osservarlo.

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