Fame, odio e vendette Tripoli in ginocchio E c'è già chi rimpiange anche il Colonnello

La capitale nel caos, tra esecuzioni sommarie ed emergenza umanitaria. E la sfiducia dilaga. E i ribelli ammettono: "Non c'è nessuna traccia di Gheddafi e del suo clan". REPORTAGE Così tradivano il raìs. Continua la caccia all'uomo ma la cattura del dittatore è ancora lontana. La mappa dei lealisti. FOTO: Tripoli sotto assedio .

Fame, odio e vendette Tripoli in ginocchio  
E c'è già chi rimpiange anche il Colonnello

Le porte dell’inferno non si richiudono. Giorno dopo giorno Tripoli precipita sempre più in basso, sprofonda nella paura, nell’odio e nella carestia. Tra l’indifferente inettitudine dei nuovi vincitori. Tra l’allibito sgomento dei suoi abitanti. L’ultimo e più recente cerchio dell’orrore corre tra le pareti bruciate di un magazzino della capitale. Lì l’inviato di Sky News britannica trova 53 corpi decomposti, abbandonati. Hanno abiti civili, mani legate dietro la schiena, pallottole nel cranio. Secondo le scarne testimonianze raccolte dall’inviato britannico sono stati uccisi dai soldati di Gheddafi tra il 23 e il 24 agosto, durante la battaglia per il controllo della città. Anche per i due soli uomini in uniforme ritrovati assieme agli altri 50 c’è una spiegazione. «Sono stati ammazzati perché si rifiutavano di sparare sui civili» - dicono le voci. Ma sono testimonianze lacunose. Incerte. Capaci di ribaltarsi di ora in ora. Anche gli oltre cento corpi decomposti ritrovati venerdì sulle lettighe e sui letti dell’ospedale del quartiere di Abu Slim sembravano vittime della crudeltà e dell’efferatezza lealista. A 24 ore di distanza i dubbi aumentano. Molti di quei poveri resti hanno la pelle scura, vestono la divisa. Molti di loro vengono definiti dagli stessi ribelli come mercenari. E aumentano i timori di una spietata vendetta messa a segno dai nuovi vincitori, da quei «liberatori» arrivati a Tripoli grazie al sostegno della Nato e all’entusiastico appoggio di Stati Uniti ed Europa. A confermare i dubbi sulla reale identità dei massacratori dell’ospedale contribuisce l’imbarazzo del ministro britannico per lo sviluppo Andrew Mitchell che definisce raccapriccianti le informazioni ricevute e rassicura sulla volontà della comunità internazionale di perseguire «chi da qualsiasi parte commetta atrocità». Le sue parole arrivano subito dopo l’allarmato appello dal segretario generale dell'Onu Ban Ki Moon sulla «necessità di mettere fine al conflitto e restaurare l'ordine e la stabilità». Il problema è chi possa farlo. La latitanza degli esponenti del Consiglio di Transizione di Bengasi, l’entità a cui 30 nazioni, tra cui Italia, Stati Uniti, Francia e Inghilterra, riconoscono il ruolo di rappresentanti del popolo libico, è scoraggiante. Mustafà Abdul Jalil - l’ex ministro della Giustizia di Gheddafi, uomo di punta del Consiglio - è arrivato solo venerdì sera a Tripoli. E ieri per prima cosa s’è appellato alla solidarietà internazionale parlando di emergenza umanitaria. In effetti dietro a lui c’è il nulla. Il caos di una Tripoli senza ordine, sicurezza, acqua, elettricità e cibo lascia interdetti gli stessi ribelli. Mahmoud Shammam, uno dei loro portavoce, cerca di cavarsela spiegando che «Tripoli è più sicura di Baghdad». L’infelice e poco rassicurante paragone è quanto mai fondato. Anche Tripoli come la Baghdad del dopo Saddam soffre la mancanza di un’autorità capace d’imporsi e dettar legge. La devastante assenza dei 33 «ministri» di Bengasi - già considerati degli intrusi dagli abitanti della capitale e della Tripolitania - minaccia di assottigliare la loro già risicata autorità. Gli stessi ribelli delle montagne di Nafusa o di Misurata, sottolineano con sdegno l’assenza dei capi di Bengasi giustificata con la scarsa sicurezza della capitale. «Pensavamo di trovare un’organizzazione militare guidata dal Consiglio di Transizione, invece non c'è nulla...mentre noi siamo qui loro si prendono il lusso di definire insicura una città in cui vivono più di due milioni di persone» - spiega al Los Angeles Times il combattente di Misurata Muhammad Abu Zaid. Lo stesso senso di sfiducia e scetticismo aleggia tra una popolazione civile già pronta a rimpiangere il raìs. Ma la parte più preoccupante per la Nato e per le Nazioni Unite è il domani. Se il caos continuerà incrementando il rischio «somalizzazione» i responsabili della vittoria ribelle - ovvero l’Onu e l’Alleanza Atlantica - potrebbero dover risolvere la situazione con una difficile e temuta missione politico militare.

Il primo a smentirne la possibilità è il presidente Mustafa Abdel Jalil, spiegando in una conferenza stampa che il Consiglio di Transizione non vorrà mai truppe occidentali sul proprio territorio e chiederà casomai l’invio di un corpo di spedizione di paesi arabi o islamici. Vista la situazione interna di molte di quelle nazioni e la scarsa tradizione di solidarietà reciproca sempre dimostrata dai fratelli arabi la proposta di Jalil richiederà almeno un miracolo preliminare.

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