Far West alla Camera sulle impronte Questa volta a sparare è il «pianista» Fra una settimana scade la rilevazione digitale, ma mancano ancora all’appello 150 deputati. La rivolta: «Così si offende la nostra dignità»

Lesa Maestà: «Le impronte digitali sono un oltraggio alla dignità del Parlamento» s’è risentito Paolo Guzzanti. Leso Liberale: «Rivendico la mia natura di liberale, non metterò mai le mie dita su qualsivoglia macchina di rilevazione» s’è indignato Antonio Martino. Leso Padano: «Hanno rotto i c... sulle impronte ai rom e ora vogliono le nostre. Un’italianata, confusa e costosa» s’è intestardito Matteo Salvini. E così a una settimana dal termine per la consegna dei polpastrelli all’appello mancano ancora 150 deputati.
E dire che il presidente della Camera Gianfranco Fini pensava di averli convinti così: «Sarà difficile per chi dovesse rifiutare di fornirle, spiegare il perché». Figurarsi. È stato come dargli il «La», meglio, un «Do» di petto, ai nemici della strategia anti-pianisti. Dal partito liberale, Guzzanti ha scelto toni altisonanti: il provvedimento «si muove nel solco della distruzione dell’onore delle istituzioni repubblicane» ha detto che pareva alla commissione Mitrokin, annotando: «Mi sento già offeso ogni volta che devo far passare al metal detector la borsa (provvedimento idiota, perché potrei entrare con un mitra sotto la giacca) e trovo inutilmente offensivo il sistema che equipara i parlamentari ai sospetti criminali». Se tutti acconsentiranno, concede, «acconsentirò anch’io, per non essere confuso con i cosiddetti pianisti, che aborro», ma che «umiliazione». Pari quasi a quella di Martino, Pdl, che ha scritto a Silvio Berlusconi annunciando con decisa eleganza un pieno, solenne: no.
E se con l’ex ministro della Difesa combattono in prima linea altri irriducibili del Pdl, la Lega per una volta ha scelto le retrovie diplomatiche. A Salvini, nei giorni scorsi aveva fatto eco Matteo Brigandì: «Le impronte? Le ho già date al militare», che poi ha inaugurato un metodo già imitato da molti: ritirare il tesserino parlamentare, ma senza firmare né il modulo di accettazione per il rilascio delle impronte né quello per il diniego, per evitare di finire nella «lista dei cattivi» che sarà pubblicata sul sito della Camera. Ma lo stratega della situazione è il capogruppo Roberto Cota, che in una lettera a Fini ha tentato la tattica del temporeggiamento: la sperimentazione sia accompagnata da un aggiornamento del regolamento, con valutazione dei «problemi tecnici» che potrebbero rallentare il voto.
Indeciso su tutto, il Pd sulla questione impronte ha dettato la linea della fermezza, imponendo a tutti il calco sull’inchiostro, però ci sono ancora 30 dita imboscate. Nei giorni scorsi l’Udc ha protestato di fronte agli striscianti tentativi di boicottare il metodo anti pianisti, chiedendo che Fini faccia capire che non saranno ammesse «resistenze organizzate».
Poi però, ironia dell’elettronica, proprio Pier Ferdinando Casini, leader centrista e primo presidente della Camera a invocare il metodo anti pianisti, non è riuscito a rilasciare le sue: la macchinetta s’è rifiutata di registrarle.

Quando poi è stato il turno di Margherita Boniver, il sistema è andato addirittura in tilt. Lei ha malignamente commentato: «La portentosa macchina si è bloccata per circa un quarto d’ora». Sottolineando che il dito era «il medio sinistro».

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