Farina, da leader del Leonka ai vertici della giustizia

Gianandrea Zagato

da Milano

Sorpresa. L’icona dei no global sfasciatutto, Daniele Farina, è il neovicepresidente nella commissione Giustizia della Camera. Sì, il leader storico del Leoncavallo, il centro sociale più famoso d’Italia, è il numero due della commissione presieduta da Pino Pisicchio dell’Italia dei valori.
Strapuntino riservato a una vecchia conoscenza delle forze dell’ordine, le cui gesta sono analiticamente sviscerate nei faldoni Digos confluite in altrettante informative ai magistrati che, a più riprese, si sono dovuti occupare di lui. Passato ricco di frequentazioni coi blocchi più estremi dell’antagonismo sinistrorso internazionale e nazionale e con un eterno sogno: quello di «okkupare il mondo» ma pure di fare «tabula rasa della Fini-Giovanardi: ho già avvisato Romano Prodi». Avvertenza, quest’ultima, che il neovicepresidente della commissione Giustizia ha pure anticipato alle ultime politiche, mentre distribuiva «cartine per l’antiproibizionismo» a mo’ di santino elettorale.
Ma, Farina, è un ideologo da barricata: sa guidare manifestazioni di piazza e se necessario, da portavoce dell’autonomia in salsa meneghina, dialogare anche con gli esponenti del mondo ebraico: salvo poi, esprimere una «sincera» certezza, sulle bandiere israeliane date alle fiamme, «mi choccano di più le immagini dei civili, anche dei bambini ustionati che arrivano dall’Irak». E per George W. Bush c’è, naturalmente, pronto un tribunale: «È un criminale che dovrebbe essere processato all’Aia».
Virgolettato nero su bianco come quella sentenza dei magistrati di Milano che, nell’ottobre 2000, in appello gli hanno inflitto una condanna a quattro mesi per aver organizzato concerti e attività culturali senza l’autorizzazione del Comune. Un niente rispetto ai fatti e misfatti compiuti da Farina, che nella sua nota biografica ufficiale garantisce di «aver avuto più volte modo di constatare come le politiche della libertà e dei diritti sociali siano più efficaci di quelle di proibizione e di esclusione ovvero che i movimenti e la loro disobbedienza alle leggi ingiuste, contengono già oggi le tracce evidenti di quel mondo diverso di cui spesso tutti noi parliamo». Messaggio più che esplicito tradotto nei «giochi di ruolo» per l’assalto alla zona rossa al G8 di Genova. Già, è proprio al Leoncavallo che si sono costruiti scudi plexiglas, imbottiture di gommapiuma e catapulte utilizzate dal popolo antagonista, che ha poi nominato Farina «successore» del patavino Luca Casarini.
Promozione sul campo a chi come lavoro gestisce un negozio di fotocopiatrici a due passi dalla sede del Leonka, e per entrare alla Camera dei deputati - è stato eletto nelle fila di Rifondazione comunista - ha dovuto comprarsi una cravatta: «Non l’avevo mai posseduta». Nessun stupore, non è proprio un accessorio alla moda per un protagonista degli scontri di piazza. E Farina non la indossa neppure quando in via Watteau, sede del Leoncavallo, arriva l’ufficiale giudiziario per eseguire lo sfratto: cinque visite in un anno andate a vuoto con la minaccia di mettere Milano a ferro e fuoco, «qui siamo e qui restiamo» è il leitmotiv della campagna anti sfratto organizzata dagli autonomi.

Prossima visita il 23 giugno, anche se Farina spera in un intervento del ministro degli Interni Giuliano Amato per trovare una soluzione «attivando la prefettura di Milano» che «avrebbe un valore significativo anche per altri analoghi casi presenti sul territorio nazionale».

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