Al Fayed vende Harrod’s Ora sventola la bandiera del Qatar

I reali del Qatar sono i nuovi proprietari di Harrod’s. Non so se qualche turista o gli stessi inglesi abbiano già avvertito il cambio. Dovrà scomparire la statua in cera di Al Fayed, dovranno scomparire le immagini di Diana Spencer la principessa e di Dodi il suo amante, dovranno essere tolti dalla circolazione i profumi e gli oggetti dell’Egitto, antico e moderno, le tracce dell’antico padrone che ha deciso di ritirarsi, all’età di anni settantasette, per dedicarsi alla famiglia. E a contare un miliardo e mezzo di sterline, quasi due miliardi di euro. Porto un esempio: per assicurarsi dei servizi igienici, toilette e affini, dell’emporio, è necessario il versamento di un obolo pari a sterline 1. Egiziani o regnanti del Qatar il prodotto non cambia. Non finisce una leggenda, forse cambia la storia ma Harrods’ sta a Londra come il Big Ben e Buckingham Palace. Capita quando un negozio diventa un grande magazzino, un grande magazzino diventa un emporio, un emporio diventa un sito di lusso e di sfarzo, unico al mondo. Dallo spillo all’elefante, qua troverete di tutto, dice un adagio inglese a significare che in quel posto, a Brompton road, dal civico 87 al 135 per sottolineare l’estensione dell’edificio di novantamila metri quadrati, in quel posto, dicevo, trovi davvero tutto. L’humour inglese ci ha ricamato sopra anche la storiella: un turista, attratto dalla leggenda, per mettere alla prova i commessi del faraonico reparto gastronomico, chiede: «vorrei un panino di carne d’elefante». Il commesso, sull’attenti, china il capo, risponde cortesemente: «Yes, sir». Torna dopo due minuti e spiega: «Sorry, sir, ma abbiamo finito il pane». Ecco, questa è la chiave per entrare da Harrod,’s, il paradiso dei sogni di chiunque, la terra di pochissimi visti i prezzi e i contenuti di alcune vetrine e di reparti inavvicinabili. Harrod’s era nato nel 1834 a Cable Street nell’East end, poi il suo padrone, Charles Henry Harrod aveva intuito che, con l’esposizione universale, Londra sarebbe diventata la stazione di arrivo del mondo, si trasferì a Knightsbridge e qui cominciò l’avventura che è passata tra incendi (dicembre del milleottocentoottantatré), inaugurazione della prima scala mobile d’Europa (novembre del Novantasei), attentati dell’Ira (sei morti nel millenovecentottantatré), il passaggio di proprietà dalla compagnia House of Fraser ai fratelli Al Fayed per 615 milioni di sterline, nel millenovecentoottantacinque, la presenza di un cobra a controllare la vetrina dove era esposto un paio di scarpe da ottantamila mila euro, le proteste di una comunità Hindu per la vendita di biancheria intima (firmata da Roberto Cavalli) con alcune immagini ritenute offensive alla religione, le minacce degli ambientalisti per la vendita delle pellicce non ecologiche, il divieto dal 2000 esteso a tutti i componenti della famiglia reale di entrare nei magazzini.
Se dico Al Fayed devo pronunciare D & D, Diana e Dodi, il loro amore, la loro fine, la certezza, per Al Fayed che si trattò di omicidio, come sta scritto sotto la statua della coppia: «Vittime innocenti» e un libro registro dove i clienti romantici e nostalgici potevano apporre la propria firma con dedica affranta. Esiste un aneddoto incredibile su come Dodi affascinò la principessa. Un giorno le disse di raggiungerlo alle sette da Harrod’s, un’ora dopo la chiusura fissata alle diciotto. Lady Diana si presentò puntuale, scese dalla sua automobile e vide che le luci del negozio erano spente. Una guardia aprì una delle dieci porte di ingresso, in cima alla scalinata Diana intravide la sagoma di Dodi che, con un cenno, fece accendere tutte le luci del luna park: «Entra pure e scegli quello che vuoi, è tutto tuo». La favola di Harrod’s prevede anche questo, oltre al panino di elefante. Prevede il rito dei saldi, la carrozza tirata da due cavalli neri, la madrina che scende dal cocchio e viene accolta dal padrone in rigoroso smoking nero, la coda interminabile di clienti che danno l’assalto ai 330 reparti.

I cinquemila dipendenti di Harrod’s erano stati rassicurati il trenta marzo scorso: «Non venderò mai, state certi», aveva detto Al Fayed mentre i suoi legali stavano concludendo l’affare con i signori del Qatar. Le banche, che avevano preso in pegno alcuni piani dell’emporio, sono tranquille, i soldi ci sono. Eventualmente è finito il pane.

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