Tra fili di rame e resine la scultura di Brera si mostra in cantiere

Inaugurata ieri in una delle torri del nuovo Centro Leoni la collettiva sulle ricerche stilistiche degli studenti dell’Accademia

Marta Bravi

Uno spazio nello spazio: il «laboratorio» di Brera ospitato nel cantiere del Centro Leoni, di via Bazzi 15, ultimo investimento italiano della UBS KAG, società tedesca di sviluppo immobiliare. L’antico nel nuovo: la tradizione secolare dell’Accademia in un palazzo ancora in costruzione, futura sede di qualche centro direzionale. E in questa location del tutto inusuale è stata inaugurata ieri la collettiva degli studenti dell’Accademia al terzo piano di una delle due torri del Centro, che sarà aperta al pubblico (su appuntamento 02-6262.205) domenica (10-17).
La mostra, a cura di Vito Bucciarelli, scultore e docente di scultura a Brera, vuole essere una panoramica, sottolineata non a caso dal paesaggio urbano che si ammira dalle vetrate (medium di un metaforico dialogo tra le opere e la città) sulla creatività e sulla ricerca espressiva dei giovani artisti. Da una parte quindi l’arte «classica», se così si può definire, e cioè sculture realizzate con ferro, legno, terracotta, resina e dall’altra installazioni audio-video interattive e proiezioni di filmati, arte elettronica di ultima generazione.
Nella sala spiccano tre figure: un barbone «buttato» in un angolo, un viados in mini rossa che guarda dalla finestra e un uomo con un giornale in mano. Sono le sculture iperrealiste (in resina e fibra di vetro colorata) alla Duane Hanson di Paola Galbiati, 22enne, che ha voluto rappresentare, come spiega, «tre diverse forme di alienazione, intesa come follia, lato oscuro che ciascuno di noi ha. Io sono pendolare e alla stazione Centrale mi è capitato di osservare di tutto: il «barbone» che ha scelto la libertà, rifiutando le costrizioni che la società impone, «l’uomo comune» che ha perso la propria identità nella folle corsa verso l’omologazione e il «Viados», che non sa nemmeno lui cosa vuole essere». A questo proposito numerose le riflessioni sul corpo, declinate secondo le diverse tecniche: «Senza titolo» di Giuditta Radico, video installazione in cui le immagini di un corpo in movimento vengono proiettate su un immobile busto di gesso, sulla scia degli esperimenti di «expanded cinema» di warholiana memoria. O come «Le teste» di Elisabetta Tagliabue: due teste costruite con un filo di rame e appese allo scheletro di un parallelepipedo di ferro, mostrano la potenza scultorea della linea, capace di ritagliare dei volumi, dalla forte presenza fisica, nell’aria.

Ancora il cubetto di ghiaccio che si scioglie sotto lo sguardo imparziale della telecamera per raccontare le trasformazioni della materia («Untitled», Erika Rocchigiani)o il ricongiungimento del corpo con la propria ombra, raggiunta nel salto finale, metafora del pieno completamento del sé, nella video proiezione di «Between space» di Ko Amk.

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