Il filosofo «liberal» che piace a chi vuole sentirsi altruista

R onald Dworkin è uno di quei santoni della filosofia politica e giuridica americana che consentono ai nostri orfani dell’ideologia di riciclarsi come liberali, anzi come liberal, senza dover rinnegare niente del loro passato. Come l’angelo di Allah, che alla morte di Maometto aveva sbagliato destinatario consegnando la successione del Profeta a un uomo indegno, così i nostri intellettuali militanti ritengono di aver riposto le loro speranze in un regime, quello comunista, del tutto impari alla sua missione storica. Le idee, però, erano buone tant’è vero che, al di là dell’Atlantico, sono diventate il lievito di un liberalismo profondamente rinnovato e aperto al sociale. Guido Rossi, in un editoriale del Sole 24 Ore di qualche settimana fa - apprezzato da Avvenire -, ha citato una riflessione di Dworkin che, dipendesse da lui, dovrebbe venire scritta, come i versetti del Corano, in tutti i luoghi pubblici, a cominciare, naturalmente dalle scuole. «Bisogna senza esitare e senza stancarsi mai denunciare una delle più seducenti menzogne della modernità, quella che usa come criterio di misura della vita buona la ricchezza, il lusso e il potere (ancorché legalmente conquistati). Bisogna cioè superare l’individualismo etico che da anni dilaga nelle società occidentali e che costituisce il tarlo della secolarizzazione. La menzogna dell’individualismo non consiste nel proclamare legittimi gli interessi privati di coloro che adorano lusso, ricchezza e potere (il diritto esiste anche per garantirne la fruizione, ovviamente, nelle forme dovute), ma nel convincere subdolamente le persone a ritenere che attraverso la massimizzazione dei loro insindacabili interessi privati si possa, come per magia, costruire il bene comune e tenere insieme una società composta da “stranieri morali”».
Questo elogio dell’altruismo, però, a guardar bene sa tanto di patacca e, a guardar meglio, di “falsa coscienza”, nel senso marxiano dell’espressione (farsi i propri affari contrabbandandoli come comandamenti di Dio o della Natura o della Morale). Dove sono, infatti, e quanti sono gli individualisti etici, che rappresentano e che, nella caratterizzazione di Dworkin, dovrebbero venir chiamati, tout court, i «nuovi egoisti»? In realtà, sono una infima minoranza (per fortuna) giacché la stragrande maggioranza di tutti noi (Dworkin e Guido Rossi compresi) si colloca in una zona grigia, in cui il perseguimento del «particulare» non cancella mai una qualche sollecitudine per i bisogni degli altri. Il problema è un altro ed è che questi individualisti etici si fidano sempre meno degli «altruisti» che vorrebbero prendersi cura dei diseredati e di quanti non ce la fanno con le loro forze. Sanno che esistono organizzazioni internazionali che destinano alle popolazioni bisognose del pianeta meno del 20% dei loro bilanci e che gli enormi apparati di Welfare State messi in piedi nelle società industriali dell’area euro-atlantica comportano uno spreco di denaro pubblico a quasi esclusivo vantaggio delle burocrazie di ogni tipo. Anche per i «nuovi egoisti» è auspicabile una società in cui tutti siano ben alloggiati, ben nutriti, ben vestiti e in grado di accedere a tutti i livelli di istruzione ma il loro è un altruismo dei «risultati» e, quanto ai modi per ottenerli, si fidano, a ragione o a torto, più del mercato che delle ricette liberal.

Quello dei Dworkin, invece, è un «altruismo dei mezzi»: si opera a favore dei nostri infelici compagni di viaggio su questa terra, creando per loro una quantità sterminata di enti di assistenza e di soccorso e affidandone la gestione a un esercito di piccoli e grandi «ingegneri delle anime», sostenuti tutti, enti e gestori, dal denaro dei contribuenti. Una disamina seria dei risultati di queste impalcature «altruistiche» non rientra tra le loro preoccupazioni. Il loro «amore per il prossimo» non è amore del prossimo ma di quanti predicano l’amore per il prossimo.

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