«La finanza islamica è un fenomeno che va capito». Le parole del Governatore della Banca dItalia Draghi, allinterno del convegno tenuto ieri a Roma sulla situazione delle realtà finanziarie compatibili con la Sharia, nella loro disarmante semplicità nascondono una verità indiscutibile: è impossibile per gli operatori economici chiudere gli occhi su un fenomeno che uno studio del Monte dei Paschi, presentato durante il convegno, stima pari ai mille miliardi di dollari di attività nel mondo e che potrebbe ammontare a 4,5 miliardi di euro per la sola Italia. Il problema dellignoranza del mondo occidentale sui temi della finanza islamica sollevato da Draghi è molto concreto, perché se ne parla abbastanza ma si spiega molto poco. Il fatto è che alcuni dei capisaldi delleconomia ispirata dalla legge coranica, vale a dire il divieto del prestito ad interesse, il divieto della speculazione e il rifiuto del concetto di incertezza di un contratto finanziario, sembrano sale sparso sulle ferite più profonde lasciate dal crollo dei mercati e insinuano il dubbio che un mondo migliore sia possibile e che la ricetta si possa trovare proprio nella sharia. Non va dimenticato poi che la causa prima della crisi è stata proprio leccesso di debito che, essendo in teoria vietato alla radice dai precetti coranici, almeno nella forma del prestito monetario oneroso, ben si presta come argomento di bandiera. In realtà, a ben guardare, leggendo con mente aperta i principi di questo «mondo alternativo», si scopre che quasi tutte le soluzioni suggerite hanno ben poco di originale se non per i divieti, mai stati efficaci per prevenire alcunché, dato che la fantasia per idearli corre sempre in parallelo alle idee per aggirarli. Prendiamo ad esempio il caposaldo della sostituzione dellinteresse (vietato) con la partecipazione ai profitti. Sulla carta suona bene: chi presta denaro deve essere ripagato solo da una percentuale sugli eventuali profitti derivanti dal progetto finanziato (mudaraba), così facendo diventa irrilevante la solvibilità di chi chiede denaro e ci si focalizza sulle prospettive del progetto da finanziare. Ebbene, uno schema del genere non è troppo differente da un semplice investimento azionario, da noi considerato assolutamente fuori moda: chi compera azioni ha infatti diritto ai dividendi (che altro non sono che una percentuale dei profitti) e quindi il focus dellinvestitore dovrebbe rivolgersi automaticamente alle possibilità future della società oggetto di investimento. Un discorso analogo si potrebbe fare per molti altri contratti tipici della finanza islamica, non molto diversi nella forma da cose ben collaudate delleconomia occidentale. Ho volutamente omesso ogni accenno alletica e alla moralità perché in economia spesso si tratta di parole vuote che per avere senso devono essere riscontrate nelle persone e non nelle regole: sappiamo benissimo che tutte le società protagoniste delle truffe e dei fallimenti più clamorosi vantavano codici etici interni in apparenza a prova di bomba. In buona sostanza si rischia di fare largomento più grosso e complicato di quello che sia in realtà: gli strumenti sono ritrovabili nel gran numero di quelli comunemente usati in Occidente, letica non basta scriverla per praticarla e i divieti non hanno mai inibito nessun criminale, siano essi scritti dalla Bce o da un consiglio di imam. Lobiezione infine che le regole della finanza islamica hanno permesso di limitare per gli investitori le perdite legate alla crisi, necessita di verifiche e non può essere accettata come regola: dovremmo avere il coraggio di argomentare che anche il «sistema Italia», basato sul risparmio delle famiglie, ha consentito di attutire i danni senza per questo vietare nulla. Insomma, si tratta di un argomento utile da conoscere ma senza grandi originalità.
Se le nostre banche avranno il coraggio di allentare il credito quanto basta per farci ripartire meglio degli altri, magari potremmo in futuro meritarci dei convegni in Oriente sulla finanza italiana. Un po di ambizione ogni tanto non guasterebbe.posta@claudioborghi.com
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