RomaNiente da fare: la riforma elettorale rimane al Senato. La risposta ufficiale del presidente Renato Schifani alle sollecitazioni arrivate dal suo omologo di Montecitorio, Gianfranco Fini, per spostare la delicata materia sotto la sua giurisdizione, nelle aule della Camera, è arrivata ieri. Il presidente del Senato scrive a Fini di ritenere «opportuno che lesame dei disegni di legge in materia elettorale debba proseguire presso la commissione affari costituzionali» di Palazzo Madama, presieduta da Carlo Vizzini, dove già era incardinata.
Il presidente della Camera incassa la risposta negativa, la riconosce «ineccepibile» dal punto di vista procedurale e del «leale rapporto di collaborazione tra i due rami del Parlamento». Ma per vie indirette, tramite velina ufficiosa, fa sapere che, politicamente, quel «no» non gli piace per niente: «È altrettanto evidente - si legge nel virgolettato diffuso dal suo staff - che cè una questione politica, perché risulta difficile pensare che il Senato manderà avanti davvero la riforma della legge elettorale».
E la ragione è semplice: al Senato la maggioranza Pdl-Lega è autosufficiente e Fli e Mpa non possono fare da ago della bilancia di diverse alleanze. Alla Camera, invece, i numeri sono diversi e «sulla legge elettorale sarebbe possibile costruire una maggioranza alternativa», dicono i finiani di stretta osservanza. Per cambiare il famigerato Porcellum, certo, ma anche per dare forma, attorno al tavolo della riforma, a quel «governo tecnico» tanto sognato. Un sogno che potrebbe diventare realtà, dice Walter Veltroni: «Ci sono le condizioni per unaltra maggioranza, e la prospettiva di un governo diverso che faccia la legge elettorale».
È tutta una «questione politica», ammette dunque candidamente Fini. Se il presidente della Camera (in sinergia con le opposizioni, Udc e Pd) ha spinto in questi giorni per ottenere il trasferimento della riforma elettorale da Palazzo Madama a Montecitorio; se ieri - dopo il niet di Schifani - si è sfiorato lo scontro istituzionale tra presidente del Senato e della Camera; se dalle file di Futuro e Libertà sono partiti duri attacchi contro la seconda carica dello Stato («Schifani neutrale e asessuato? Fa ridere», dice ad esempio Carmelo Briguglio) la questione non è procedurale né istituzionale: è appunto «politica». E neppure il presidente della Camera in persona lo nasconde più.
Dal Pdl si coglie al balzo loccasione offerta da Fini su un piatto dargento per polemizzare con la mancanza di «neutralità» della terza carica dello Stato, e per reclamarne le dimissioni di Fini che attacca Schifani: «Così si fa strame del ruolo e delle istituzioni e si trasforma il Parlamento in un bivacco di manipoli», denuncia il vicepresidente dei deputati Osvaldo Napoli. «Mai prima dora si era visto il presidente della Camera bacchettare il presidente del Senato. Né si era mai visto il presidente della Camera preoccupato del profilo politico di una materia parlamentare come è la legge elettorale». Il ministro leghista Roberto Calderoli usa invece il sarcasmo: il Porcellum, ora tanto vituperato, si fece «per volontà di chi ora chiede di cambiarla, ossia Casini». E Fini «ha poche idee ma confuse», visto che «le liste bloccate tanto contestate furono imposte proprio da An», denuncia.
Secondo i finiani, però, la partita non è del tutto chiusa: «Se il Senato traccheggia sulla riforma, potremmo tornare a chiedere che se ne occupi la Camera», dice Chiara Moroni. Dalla Lega arriva laltolà: la riforma «è un pretesto», attacca il ministro dellInterno Roberto Maroni. E in ogni caso, dice il capogruppo Maurizio Gasparri, «per il Pdl non è una priorità».
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