«Fini? Ognuno è libero di suicidarsi come vuole»

nostro inviato a Pian del Re (Cuneo)

«Le escort di Berlusconi? È stato tutto messo in piedi dalla mafia». Alle pendici del Monviso, alle sorgenti della Padania, nel momento (per lui sacro) in cui attinge l’acqua del dio Po, Umberto Bossi evoca boss e malavita del Sud per spiegare lo scandalo che investe il premier. «L’ho detto pure a lui», insiste il Senatùr. La Bassa Italia, come ancora viene chiamata da queste parti, è l’origine anche di questo guaio. Ma il leader della Lega Nord non ne fa una questione di latitudine: «Chi ha in mano il racket delle prostitute? La mafia. Hanno voluto fare una ritorsione contro il governo che ha messo leggi pesantissime, con l’esproprio di tutti i beni».
La tre giorni del Carroccio comincia dunque con Bossi («tsunami del Nord», lo definisce uno striscione) schierato in difesa di Berlusconi. A differenza dell’altro leader del centrodestra, Gianfranco Fini, dal quale il Senatùr prende le distanze prima in modo felpato e poi apertamente. «Non sono preoccupato per le tensioni nel Pdl, sono cose che si risolvono - dice Bossi - non sono partiti forti come la Lega che ha molti voti. Alla fine la ragionevolezza si impone. Penso che Fini e Berlusconi si parleranno, quando vado a Roma andrò a trovare Fini e là sentirò quello che dice».
È invece sull’immigrazione che si scava il fossato. Accoglienza ai profughi? «Fini li vuole? Se li porti a casa sua. Se uno vuol riempire il paese di stranieri non è molto tranquillizzante. Comunque c’è un accordo elettorale e Fini è uno che mantiene i patti». Asilo politico in mare? «Non è giusto. C’è una legge, non si fa la controlegge. Se uno non può restare, deve tornare al suo paese. Entrare da clandestino non mi sembra una via democratica. Si entra democraticamente e regolarmente». I cinque anni per ottenere cittadinanza e diritto di voto? «Anche all’interno del governo c’è chi vuole spalancare le porte agli immigrati e ai clandestini. Dicono: facciamoli entrare perché non votano Lega. Ma è un ragionamento insano perché i voti li prende sempre il più forte, il più simpatico, chi dice cose magari dure ma vere e giuste». E così il numero uno del Carroccio non esclude di prendersi i voti degli ultimi arrivati.
Più tardi, a valle, durante il comizio del pomeriggio, arriva la bordata che chiude i conti. Sono le quattro e mezzo, l’acqua del Po è chiusa nella mitica ampolla, sui prati del Monviso si sentono soltanto i fischi delle marmotte sotto i nuvoloni neri, anche la «Baita della polenta» al Pian della Regina, requisita per il banchetto dello stato maggiore leghista, si è svuotata. Il popolo padano è accalcato nella piazza di Paesana, una ventina di chilometri più giù. Il Senatùr tiene il comizio dal palco sotto un portico. Una militante gli chiede urlando che cosa pensi del voto agli immigrati proposto da Fini. La risposta di Bossi è lapidaria: «Ognuno è libero di suicidarsi come vuole». Ovazione. E poi: «È una scelta sbagliata, non è quello che vuole la gente. Noi della Lega preferiamo stare con la gente». La coppia Bossi-Fini, che sull’immigrazione firmò la riforma della Turco-Napolitano, è dunque scoppiata. E c’è un altro terreno dove si consuma, sia pure in modo meno plateale, la rottura: quello del federalismo. Alleanza nazionale è sempre stata l’ostacolo più solido contro la riforma federalista. Senza citarla, Bossi lo ricorda: «Nella maggioranza qualcuno pensava di darci il contentino del federalismo fiscale per tenerci buoni. Invece no. Abbiamo avuto il federalismo e avremo i salari differenziati, come negli Stati Uniti e in tutti gli Stati federali. In America un operaio di Chicago non guadagna come uno di New York. Da noi al Nord il costo della vita è molto più alto che al Sud: lo dice Bankitalia, non Bossi. Quindi devono esserci buste paga più ricche».
Per il Senatùr «la battaglia è cominciata». Del resto sono le riforme, avverte, non le elezioni anticipate, che bisogna fare: «Elezioni anticipate? E per che cosa? Sarebbero scemi, perché la Lega vincerebbe ancora di più». Quella sui salari regionali non è stata una polemica estiva, ma diventerà il nuovo fronte di lotta politica. «Stiamo trattando con i sindacati, anche lì dentro qualcuno comincia a cedere, si accorgono che abbiamo ragione noi. Qualche dubbioso c’è anche all’interno del governo: lo convinceremo. Perché noi siamo qui per questo. Abbiamo scelto la via democratica per cambiare l’Italia, con quel poco di democrazia che rimane. Il primo grande passo di libertà si chiama federalismo fiscale. Senza di esso adesso saremmo qui a darci forza e coraggio per un altro tipo di battaglia».
«Ma il federalismo - aggiunge il segretario del Carroccio - ha una serie di conseguenze: gli insegnanti di casa nostra, il dialetto e la tradizione da insegnare a scuola, i salari differenziati. I lavoratori del Nord sono i migliori del mondo e i peggio pagati al mondo.

Sono loro i veri discriminati. Noi combattiamo per loro. Picchia oggi, picchia domani, le cose cambiano: è il nostro metodo. E a Roma ladrona ricordo di non esagerare. La gente del Nord è buona e brava, ma non dovete romperci i coglioni».

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