Fischi, polemiche e flop Da Dylan agli U2 la caduta degli dei (rock)

Massì, quelle scordatevele. Non ci sono più le rockstar di una volta, gli eroi che dettavano la linea e guai a chi non la seguiva. Tempi (e applausi) andati. Questa è l’epoca dei fischi, e più sono meglio è. E neppure conta tanto stabilire se siano meritati: basta fischiare, poi vedremo. Attenzione, caduta idoli. Prendete gli U2, i più grandi, forse non più così creativi ma capaci di suonare davanti a milioni di persone che poi tornano a casa soddisfatte. Sarà che si sono esposti troppi. Sarà che contestare fa sempre chic (e non impegna). Ma l’altro giorno al Festival inglese di Glastonbury, uno dei più importanti del mondo, si sono presi un po’ di pernacchie da una trentina di esaltati dell’Art Uncut Group, già noti per aver protestato, sempre a pernacchie, contro i tagli alla cultura in Gran Bretagna. All’inizio del concerto hanno tirato fuori uno striscione gonfiabile con l’arguto gioco di parole «U pay your tax 2», che significa «paga le tasse anche tu». Per carità, gli U2 non sono evasori fiscali (o per lo meno nessun giudice lo ha ancora stabilito). Semplicemente nel 2005 hanno trasferito la loro residenza fiscale dalla severa Irlanda alla più docile Olanda e lì pagano quel che devono. Però, visto che l’Irlanda ha l’acqua alla gola, l’occasione era ghiotta per spalare un po’ di fango: tornate a versare l’obolo dove siete nati. Il manager Paul McGuinness ha spiegato senza fare un plissè che «gli U2 sono un’impresa globale che paga le tasse ovunque». Irlanda compresa. E fin qui non ci piove: a ogni concerto (e oggi si guadagna più con i concerti che con i dischi) il fisco si prende la sua parte. Però non importa: basta contestare e il più è fatto. E difatti ne ha parlato tutto il mondo, fregandosene che, a detta dei presenti, lo show di Bono sia stato superlativo e che il resto del pubblico abbia fischiato i fischiatori. Ma non conta: le rockstar non sono più intoccabili, anzi. Sono bersagli, altro che. Sono il simbolo di un sistema che cambia e che scatena la solita, talvolta patetica veemenza di ritorno: tanto vi amavamo prima, tanto vi fischiamo ora. Guardate Prince: vende sempre meno e si impegna in battaglie di retroguardia (come quella contro la musica sul web) che neppure il suo pubblico ormai condivide. Idem per Bob Dylan che, quanto a disinvoltura, ne ha combinate più di Bertoldo in Francia. Ma stavolta è stato impallinato sul serio: anche il New York Times e il Financial Times, di solito in ginocchio davanti a His Bobness, hanno notato che, suvvia, subìre senza fiatare la censura del regime cinese, che gli ha imposto di non cantare la maggiorparte dei pezzi più «politici», non è stato proprio un capolavoro di coerenza. Lui ha precisato settimane dopo, smentendo timidamente e burocraticamente sul suo sito. Però, a parte la falange macedone che lo promuove purchessia, non gli ha creduto nessuno. Ecco, questa è la novità: la disillusione. Per carità, non è che prima tutto fosse oro colato. Ma c’era più tolleranza. Adesso chissenefrega. Tutte le rockstar sono radiografate minuto per minuto da plotoni di blog, che spesso spacciano semplici illazioni per verità colate. È il wikirock, la musica raccontata dai gazzettini e dalle enclopedie del web spesso farcite di inesattezze, quando va bene. O di calunnie, meglio se anonime. Certo il rock.2 non avrà più la stessa irresistibile calamita d’opinione e, soprattutto, ora sconta i decenni di strapotere. Prendi Ringo Starr. Un Beatle. Domenica sarà a Milano, oltretutto con una band meravigliosa e lo attendono a braccia aperte perché qui non suona da quasi vent’anni. Ma qualche giorno fa era a Liverpool, dicesi la città natale dei Beatles, e il locale non era neanche tutto esaurito. Una sala da 2300 spettatori, mica il Madison Square Garden. «E i suoi concittadini erano pochi» ha notato qualcuno, ricordando che Ringo Starr tre anni fa ha detto che di Liverpool non gli mancava «niente». Complimenti. In ogni caso, moribondi i re, dovrebbero farsi sotto gli eredi. Sì, ma quali? Vanno e vengono come la moda d’estate. Sono eredi al trono per un mattino (vedi, a caso, gli Arctic Monkeys).

E immediatamente dopo dicono che non hanno idea «di quanto tempo ci rimanga come gruppo» (sempre Arctic Monkeys). Insomma, come d’abitudine, il vuoto di potere demolisce i simboli. Va bene, ma un po’ di rispetto, accidenti.

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