Flop da record di Uma Thurman A vedere il suo film vanno in 12

In un momento di transizione così difficile per il cinema mondiale, stretto tra crisi economica e nuove sperimentazioni, ci tocca pure aggiornare la lunga lista dei flop al botteghino. Capita così che Il bello di essere mamma diventa il brutto di prendere un bagno epocale, affogando nel più mortificante degli insuccessi, com’è accaduto alla star planetaria Uma Thurman, la diva di Pulp Fiction e Kill Bill. Da protagonista di Motherhood (ossia «Maternità», però da noi il film indipendente di Katherine Dieckmann, trasmesso da Canale 5 il 20 agosto 2009, titolava Il bello di essere mamma) l’ex-musa di Tarantino ha fatto un fiasco atroce. Doveva essere un evento da red carpet la proiezione esclusiva di questa commedia sulla frenetica giornata di mamma Eliza, una Thurman sciattona e con gli occhiali, alle prese con due figli piccoli e una carriera da scrittrice, nell’unica sala londinese dell’Apollo Theatre, dentro al cuore pulsante di Piccadilly Circus. E invece sono state le Idi di marzo: nel primo weekend di programmazione, infatti, soltanto una dozzina di persone ha visto questa pellicola semiautobiografica (Uma è sposata col miliardario Arpad Busson, però segue da sola i suoi due figli), totalizzando il misero incasso di 88 sterline. E se non era bastato il pessimo esordio di venerdì 5 marzo, con quei dodici apostoli pietosi, stretti intorno alla leggendaria attrice baronessa (per parte di madre), il sabato dopo è arrivata l’Apocalisse: un solo spettatore, un unico biglietto staccato.
Ma perché, invece di mettersi in fila nel West End, per gustarsi un decente filmetto, lanciato al Sundance Film Festival dell’anno scorso, con un cameo di Jodie Foster, se ne sono stati tutti alla larga da mom Uma, celebrità finora di sicuro incasso? Che Motherhood fosse una sòla lo mandava a dire agli inglesi il pubblico americano, regalando pochi spicci a questa atrocious performance (così il giornale inglese The Guardian): a ottobre, quand’è uscita negli Usa, la pellicola ha incassato 40mila dollari, contro i 5 milioni di costo (l’incasso totale nel mondo è di 701mila dollari). Eppure, è d’una madre stressata di Manhattan che si tratta, d’una povera crista, che vorrebbe tornare a lavorare, ma non può: qualcosa di attuale, che però non ha funzionato. Intanto che la diva planetaria riflette su un simile disastro, litigano a morte la produttrice del film, Jane Edelbaum, e la compagnia responsabile del marketing inglese, la Metrodrome. I cui uomini puntavano su una distribuzione elitaria, volta a creare un caso intorno a Motherhood: teoricamente, doveva esserci la corsa ad accaparrarsi il biglietto. «È inevitabile che qualche film lavori meglio su certe piattaforme, invece che su altre. In questo caso particolare, il dvd è andato meglio del film in sala», argomentano gli addetti alla pubblicità. «Il mio film non è male. È più che decoroso. Ne ho visti di ben peggiori», attacca la Edelbaum. Resta comunque lo choc, doppio se si pensa che tale flop non gode neppure del record negativo d’incasso, spettante al polacco My Nikifor, di Nikifor Kryniki: nel 2007 incassò la ridicola cifra di sette sterline.
Di fatto, la storia recente di Hollywood è lastricata di insuccessi clamorosi, né va dimenticato che un film rimane comunque una scommessa, lanciata nell’insondabile spazio del gradimento. Ne sa qualcosa Francis Ford Coppola, rimasto a lungo seduto sui propri fallimenti, visto che a un certo punto della carriera decise di prodursi da solo i film, con la Zoetrope. Il suo musical ipertecnologico Un sogno lungo un giorno (1982) rimane negli annali per aver mandato a carte quarantotto gli Zoetrope Studios, teatri costosissimi e innovativi. Costato oltre 30 miliardi di vecchie lire, il film venne stroncato dalla critica come «un gioco accademico» e subito ritirato, nonostante la splendida fotografia di Storaro e le belle musiche di Tom Waits. Lo smacco si ripetè con I giardini di pietra (1987), passato quasi sotto silenzio e costato una cifra considerevole al buon Francis Ford, che a quel punto decise d’investire nei vini le poche risorse rimastegli. Si rivelò un flop da manuale anche I cancelli del cielo (Heaven’s Gate) di Michael Cimino, che costrinse la United Artist a dichiarare direttamente bancarotta, avendo perso, per quella lavorazione, ben 40 milioni di dollari, una somma agghiacciante per il 1980.

C’è da ricordare, poi, Battaglia per la terra (Battelfield Hearth) di John Travolta, con i suoi 43 milioni di dollari in fumo a segnare una certa sospettosità nei confronti di Scientology, setta al centro di quella sfortunata pellicola.

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