Il primo pensiero di Giggino Di Maio sulle ragioni delle sue dimissioni da capo politico del movimento va a se stesso. «Non ne potevo più racconta agli amici - : l' altro giorno mentre ero con Putin avevo il telefonino che continuava a suonare perché il senatore Emanuele Dessì, il dissidente ma non troppo, voleva leggermi il suo comunicato, critico ma non troppo». Il secondo va al suo futuro, naturalmente nel governo. «Io resto osserva a fare il ministro degli Esteri. A 34 anni posso farmi delle relazioni a livello internazionale che potrebbero tornare utili a me e al movimento». Il terzo va al gemello «politico» che lo ha deluso: «Se io fossi stato al posto di Alessandro (Di Battista, ndr) e lui avesse ricoperto il mio ruolo, non avrei fatto quello che lui ha fatto a me. Io ho deciso questo passo prima di Natale...». E quei puntini di sospensione, per gli amici che lo conoscono, stanno a significare che l' ultima spinta al gesto è stata il rifiuto del Dibba di diventare ministro dell' Istruzione dopo che Lorenzo Fioramonti aveva mollato l' esecutivo. Infine, ultimo pensiero, ma forse il primo per importanza, la garanzia che questo governo sopravviverà: «Forse ci sarà qualche problema, perché il movimento è come una maionese impazzita, ma alla fine terremo. Io ho una visione diversa da Patuanelli, il suo riformismo non c' è più, è quello del secolo scorso. Ma sicuramente ha una grande capacità di tenere tutti insieme. Lo ha dimostrato come capogruppo al Senato: andato via lui il gruppo è esploso».
A ben vedere la valutazione principale di Di Maio nella scelta che ha lasciato i 5stelle senza capo alla vigilia di elezioni importanti, è l' interrogativo «mi giova o non mi giova?». E il corollario di questo ragionamento, e le sue gerarchie, partono dall' assunto che il governo (e la legislatura) valgono più di ogni altra cosa, addirittura della leadership. Il colmo per un movimento nato nella retorica che il primo degli orrori, la fonte di tutti i mali, è «la poltrona».
Appunto, la conservazione di una poltrona, nel governo o in Parlamento, può trasformarsi in un credo politico anche per i grillini. Addirittura può far dimenticare la grammatica di ogni leadership - politica, militare o manageriale che può prendere la strada delle dimissioni sempre, ma proprio sempre, meno che alla vigilia di una battaglia importante: è come se Napoleone arrivato a Waterloo, fatti due conti, avesse girato il cavallo per tornare indietro. Una scelta del genere ignora del tutto anche l' epica della politica, per cui bisogna avere il coraggio di battersi, di rischiare una sconfitta, proprio per evitare che la politica si trasformi in un mestiere come un altro ispirato, appunto, al «mi giova non mi giova?». Non per nulla nella storia l' unico leader di partito che lasciò la segreteria a un reggente alla vigilia di un voto fu Walter Veltroni, che mollò quella dei Ds al povero Piero Folena prima della sconfitta nelle elezioni politiche del 2001: solo che Veltroni, che tra tante qualità non ha certo il coraggio, lo fece un mese prima delle urne (non tre giorni prima come Di Maio) e, comunque, per tentare l' impresa difficile, poi vinta, di diventare sindaco di Roma.
Ovviamente il comportamento di Giggino, non è piaciuto neppure a Beppe Grillo («perché Luigi non si è dimesso dopo il voto di lunedì?» ha chiesto), che infatti ha ignorato del tutto le dimissioni sul suo Blog.
E ha lasciato perplessi molti, affezionati e non. C' è il perplesso comprensivo, come il sottosegretario Angelo Tofalo. «Strategicamente può lasciare di stucco, ma lunedì, in caso di sconfitta, lo avrebbero messo al rogo». Il perplesso sarcastico, come Fioramonti: «Chi ha capito Di Maio è bravo. Le dimissioni alla vigilia di una battaglia sono una bestemmia per una leadership. E poi a che pro? In caso di sconfitta non potrà mica dire che è colpa del reggente, di Crimi. La verità è che lui ha fatto un gesto che è come un elettrone messo dentro un acceleratore di particelle, ti può colpire davanti ma anche nel di dietro». Ed infine il perplesso che sentenzia, come l' ultimo fuoriuscito dal movimento Nunzio Angiola: «Una scelta autocelebrativa, autoassolutoria, in pratica, autoreferenziale».
Ma la riflessione più pregnante è che nella cosmologia giallorossa di oggi, governo e legislatura valgono più di una leadership. Per cui in caso di sconfitta in Emilia la legislatura non è messa in discussione, il governo sarà passibile di un rimpasto, mentre gli unici che pagherebbero dazio sono i leader: Di Maio ha mollato pur di evitare un probabile processo dopo il voto, ma la stessa sorte potrebbe accadere a Zingaretti se Bonaccini perdesse. Uno schema che condividono tutti nella maggioranza, dentro e fuori il Pd. «In fondo ammette il ministro Boccia accadeva pure nella Prima Repubblica: si predilige la continuità delle maggioranze e dei governi». «Certo che Zingaretti rischia spiega Piero De Luca ma non deve aver paura, in Emilia vinciamo». Per non parlare degli «ex» che già sono pronti a mettere la croce sulle spalle del segretario del Pd. Con un gruppo di parlamentari amici, Maria Elena Boschi, si è lasciata andare a questa battuta: «Zingaretti dice di aver salvato il Pd dal coma?
Si, ammazzandolo!».
C' è da chiedersi, a questo punto, perché le leadership di partito valgono meno di un premier, di un avvocato del popolo che naviga tra una maggioranza e l' altra come Giuseppe Conte? «Il motivo è semplice taglia corto il piddino Umberto Del Basso De Caro -: perché non ci sono più leader da questa parte: perché Zingaretti è un leader? Avevamo Renzi ma lo abbiamo cacciato». Già, nella strategia del Pd legislatura e governo vengono prima del segretario, perché nel pragmatismo democristiano di Dario Franceschini - sono gli unici argini a Salvini. Sono la diga che permetterà alla maggioranza giallorossa di varare una legge elettorale che rimescoli gli schieramenti, di gestire la stagione delle nomine, di ipotecare il Quirinale, in pratica di restare al Potere in questa legislatura puntando a restarci anche nella prossima.
Una filosofia che i grillini, con il loro nuovo «credo», hanno abbracciato. «Abbiamo parlato a lungo tra noi e con il Pd ha confidato ad un deputato il sottosegretario 5stelle, Gianluca Castaldi e abbiamo siglato un patto di ferro: non si va ad elezioni neppure se si perde in Emilia.
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