Ho sentito parecchi dibattiti, da radio e televisioni, a proposito dellimmagine pubblicata ieri sulla prima pagina del Giornale: il corpo - scomposto e umiliato dalla morte violenta - di un nostro soldato, il viso doverosamente celato per rispetto a lui e ai suoi familiari. Oggi leggeremo la stessa polemica sui quotidiani: cè chi è contrario a priori alle immagini di violenza, chi è favorevole per dovere di cronaca. Ma, quali che siano le posizioni, lo scopo che si riproponeva Vittorio Feltri, in sintonia con il suo editoriale, è stato raggiunto. Se siamo in guerra, sosteneva il direttore del Giornale, mettiamo i nostri soldati in condizione di combatterla davvero, non di farsi ammazzare senza poter reagire. Si condivida o no il punto di vista, non cè dubbio che la foto è ancora più efficace dellarticolo. La stessa logica - pubblicare la foto - dovrebbe valere anche di più per i pacifisti a tutti i costi. Ci piace la guerra? No. Allora è ozioso il dibattito se sia opportuno pubblicare fotografie di caduti in combattimento, perché niente più di quelle immagini rende insopportabile lidea del conflitto armato.
Facciamo un esempio. Da anni circola anche da noi lipotesi, già attuata in diversi Paesi, di stampare sui pacchetti delle sigarette immagini terrorizzanti e terroristiche: invece delle solite scritte «Il fumo uccide» eccetera, si sostiene che sarebbero molto più convincenti fotografie di polmoni allultimo stadio del cancro. È certo che, se si vorrà procedere, il provvedimento verrà accolto con entusiasmo dai non fumatori. Quanto ai fumatori, molti ricominceranno a mascherare i pacchetti con contenitori appositi, come accadde quando apparvero le scritte, poi non ci faranno più caso. Però: secondo le statistiche non sono pochi i tabagisti divenuti ex proprio grazie ai pacchetti minatorii, e ancora di più saranno quelli dissuasi da immagini raccapriccianti di come potrebbero diventare i loro preziosi polmoni.
Il paragone con le fotografie di morti in combattimento non è improprio, anche se la guerra non è un vizio personale. Si tratta di comunicare la realtà di un fenomeno, costringere a riflettere, a prendere o mutare posizione. Un grande poeta del Novecento, il Nobel russo Iosif Brodskij, ha creato questo straordinario verso/aforisma: «Cogito ergo sum diventa Kodak ergo sum» (Fuga da Bisanzio, Adelphi). È unironia su chi - invece di riflettere sullessenza delle cose - crede di catturarne lessenza fermandone limmagine; ma cè anche un significato più coeso al nostro discorso: limmagine di situazioni lontane ci aiuta a pensarle, dunque a capirle. Quella fotografia del nostro soldato ci dice, sullAfghanistan, più di dieci discorsi di presidenti del Consiglio e di mille articoli. E, se il ruolo di un giornale è informare/fare opinione, la foto doveva essere pubblicata.
Gli americani, che di giornalismo e di guerre se ne intendono, lo sanno benissimo. Fin dalla guerra di secessione lesercito Usa dispone di un reparto speciale, i Combat artist, composto da disegnatori e pittori che vengono inviati su tutti i fronti. Possiamo vedere le loro opere in un bellissimo volume illustrato (Roberto Olla e Sergio Valzania, Artisti da combattimento, Mondadori), che racconta centocinquanta anni di guerre. Si tratta di immagini che solo raramente raffigurano scene eroiche o combattimenti vittoriosi. Più spesso rappresentano soldati alle prese con le proprie mansioni: sparare, sì, ma soprattutto lavorare, aspettare, soffrire. E morire. Non esaltazione delle virtù marziali o del militarismo, bensì dello sforzo cui gli americani sono chiamati in terre lontane. Dunque, i combat artist sono tuttora attivi nonostante la fotografia e la televisione li abbiano soppiantati per rapidità e immediatezza.
Il fotografo di guerra, invece, va a caccia di riprese fortemente emotive, capaci di condizionare lopinione pubblica in un senso o nellaltro. Si cita sempre lesempio del Vietnam: per la prima volta fotografie, televisione e film portarono la guerra nelle case degli americani, creando un vasto movimento dopinione pubblica pacifista. È più recente, e meno noto, il caso dellintervento in Somalia (1991-94). La maggior parte degli americani non sapeva neppure che il loro esercito fosse impegnato pure lì, finché una squadra di rangers fu sorpresa da unimboscata e i cadaveri dei soldati vennero trascinati per le strade di Mogadiscio in mezzo a una folla festante. Ci fu - soltanto allora - chi chiese di «dar loro una lezione» bombardando la città o mandando forze maggiori; i più, però, chiesero il ritiro immediato delle truppe da un luogo dove non cera nulla che valesse la pena di proteggere. E lo ottennero, poco dopo.
È questa, in un senso e nellaltro, la forza della fotografia di guerra. Lultima prova, pochi giorni fa, si è avuta ancora negli Stati Uniti con limmagine dell'agonia del caporale Joshua Bernard, 21 anni, le gambe straziate da una granata dopo un agguato dei talebani. I media Usa, al contrario di quanto avvenne per il Vietnam, finora si erano quasi sempre rifiutati di pubblicare fotografie simili da Irak e Afghanistan. Infatti il segretario alla Difesa Robert Gates si è sdegnato, in una lettera al presidente dellagenzia di stampa Ap: «La vostra mancanza di pietà e senso comune nello scegliere di mettere la foto di un ragazzo menomato e ferito in prima pagina su molti giornali è terrificante».
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