Frassineti nei gironi della burocrazia

C'è un capolavoro letterario italiano che rappresenta la macchina burocratica delle democrazie che non funzionano, come per esempio la nostra.

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Se non si fa altro che citare 1984 di George Orwell, in genere a sproposito, magari per additare qualche colpa del capitalismo, degli Stati Uniti, la sindrome del «siamo tutti spiati», quando orwelliano è ogni totalitarismo (dall'Unione Sovietica, a cui si riferiva Orwell, alla Cina, alle teocrazie islamiche, fino alla finta democrazia della Federazione Russa di Putin), c'è un capolavoro letterario italiano, sempre poco nominato, che rappresenta la macchina burocratica delle democrazie che non funzionano, come per esempio la nostra. Sto parlando di Misteri dei Ministeri di Augusto Frassineti, uscito nel 1952 per Guanda, nel 1973 per Einaudi nella sua forma ultima, e che Einaudi ha appena ristampato.

Romanzo sublime, anticipatore del postmoderno (anche di quello moderno, potrebbe averlo scritto David Foster Wallace), scritto in forma di trattato ricevuto dall'autore da un fantomatico signor D.K. 55: una geniale e grottesca quanto realistica satira della burocrazia e della sua inefficienza, in cui l'Italia è tutt'oggi al primo posto. Non c'è verso di semplificarla, la burocrazia italiana, dal dopoguerra a oggi chiunque ci governi la complica. Il capolavoro di Frassineti potrebbe essere stato scritto nel Cinquecento e stare vicino a Rabelais, nel Settecento e vedersela con Jonathan Swift, nell'Ottocento con Flaubert, nel Novecento è kafkiano, sì, ma con una vena satirica e tragicomica ben sintetizzata da una definizione di Filippo La Porta: «Immaginate Fantozzi riscritto da Gadda».

Dentro c'è tutto, paradossale ma non troppo, anzi fin troppo verosimile, come «convocazioni in bianco: sorta di sommovimenti di personale impiegatizio che si concentra follemente e si espande alla ricerca di pratiche inesistenti», «conflitti di competenza: anch'essi collegati alla creazione di pratiche finte e alla dispersione o contaminazione di quelle vere», «il silenzio dell'amministrazione: specie di diaframma soprasensibile posto a difesa dell'irrazionale amministrativo». Nessuno può governare perché i ministeri vivono di vita propria per complicare le vite dei cittadini, emettono addirittura una qualche forma di radioattività (emessa anche dagli oggetti e dai luoghi, «un timbro, un telefono, un fermaglio, un fascicolo, un battente come uno stipite, ingressi, corridoi, scaffali, oscurità, bagliori, paraventi, palazzi», denominati «Soprastruttura M»), chi vi entra non ha altra via d'uscita che diventare un impiegato ministeriale, l'ingranaggio di una macchina che gira a vuoto con il solo scopo di far girare se stessa.

C'è perfino una soluzione proposta dal signor D.K. 55: «egli propugna, come solo possibile mezzo di disinfestazione un congruo periodo di amministrazione all'aperto: nelle piazze, cioè nei giardini, nei prati, per le strade» (se fossero esistiti internet e gli smartphone per farsi i selfie ai tempi di Frassineti l'avrebbe realizzata Matteo Salvini). Il criterio di scelta dell'impiegato ministeriale è comunque «l'incompetenza o, che fa lo stesso, l'impreparazione».

Con il sospetto che la burocrazia sia nata fin con le religioni e i loro personaggi, perché insomma, anche dell'Eterno, ne vogliamo parlare? Frassineti, o meglio il signor D.K.

55, ci avvisa che «allo stato delle ricerche non vi sono argomenti per escludere che Mosè, allo scopo di consolidare il proprio vicariato, abbia lavorato di forbici e colla su di un resoconto più antico e veritiero di ispirazione comunitaria, e che pertanto Eterno sia soltanto il residuo di una locuzione attributiva di ben diverso significato, come sarebbe l'eterno guastafeste o l'eterno rompicoglioni». Amen.

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