Non soltanto il salario, ma anche il tempo come «variabile indipendente». Chiuso con un anno di ritardo e a condizioni onerose per le imprese, il contratto dei metalmeccanici non si presta a trionfalismi. Dal punto di vista dei maggiori attori il giudizio può essere positivo, date le loro funzioni di preferenza: quelle appunto degli interessi dei grandi soggetti burocratici che si alimentano reciprocamente della contrattazione centralizzata.
Mesi di estenuanti trattative, scioperi, manifestazioni d'ogni genere al limite della legalità ed oltre, hanno portato a un risultato che Confindustria ha riassunto nella formula: «Non vogliamo pagare meno ma pagare meglio». Il contratto accoglie qualche elemento di novità, alcune dalla legge Biagi come l'apprendistato formativo, la possibilità di modulare l'orario di lavoro su più settimane, ma nessuno scambio tra maggior flessibilità in azienda e salario.
Quanto al «travaglio», con ricadute pesanti sul resto dell'economia e sulla società, sembra l'ennesimo ma insostenibile esempio di quella «società contrattuale» e dell'inefficienza della contrattazione delineate un quarto di secolo fa dal norvegese (fra l'altro comunista) Lejf Johansen, successore del Nobel Ragnar Frisch a Oslo: un processo che tende a sprecare risorse procrastinando le decisioni per ragioni tecnicamente non necessarie e a non realizzare i guadagni potenziali, che se ne vanno in fumo. Qualche ragione ci sarà, ed è precisamente l'interesse delle parti per il modello centralizzato.
L'esigenza pressante di un'economia come la nostra è invece quella di riformare su basi opposte il modello contrattuale attuale, nell'interesse delle imprese e di quella gran parte della forza lavoro, giovane e spesso atipica, che non è tutelata. Si tratta di ragioni di equità, ma anche di urgentissime necessità per rendere, oggi e non domani, l'economia italiana aperta allo sviluppo moderno dopo decenni di sclerosi misoneista e conservatrice. Ciò che richiede un vero e proprio rovesciamento dei livelli di contrattazione verso il massimo decentramento, alla ricerca delle specifiche e variabili condizioni di produttività alle quali adeguare remunerazioni, incentivi, partecipazione dei dipendenti e la massima cooperazione per l'efficienza e la competitività, nei più riposti angoli del sistema. Facendo quindi del decentramento la base del sistema.
È evidente come questa «rivoluzione copernicana», ritardata e impedita per decenni da ragioni ideologiche e politiche radicate nel modello socialdemocratico scandinavo e nordeuropeo applicato al caso italiano su basi di potere delle grandi organizzazioni, sia vitale e urgentissima. Ma evidentemente non può volerla chi ha idee ed interessi opposti, priorità ben diverse di conservazione e di contrasto sul terreno del potere politico ed economico, tipiche della sinistra e di quote non indifferenti della stessa classe imprenditoriale. Ed infatti all'indomani dell'accordo per il contratto dei metalmeccanici, che prevederebbe un sollecito, anzi immediato inizio di trattative sulla riforma del modello di contrattazione, il richiamo di Confindustria ha subito trovato una risposta eloquente e persino sprezzante dal leader della Cgil, Epifani: per adesso abbiamo dato (la firma sul contratto), ma ora non se ne parla, abbiamo il nostro Congresso. Insomma, non c'è fretta e un Congresso sindacale viene ben prima dell'interesse generale. A Epifani si è subito accodato Angeletti della Uil, un'organizzazione il cui potere derivato supera in maniera incalcolabile la rappresentatività, che ha sentenziato (come l'omino che nel film di Ford Un americano tranquillo con John Wayne tiene il libretto nero del terribile Victor McLaglen): la riforma della contrattazione è necessaria ma non urgente. Esattamente come lo sarebbe stata quindici o vent'anni fa. Sarà, forse, un po' deluso Savino Pezzotta.
Ma a questo punto è evidente che, dopo la truffaldina «variabile indipendente» del salario, altrettanto indipendente per le nostre parti sociali è il tempo.
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