Fry fa il verso a Shakespeare e Dumas

«Le palle da tennis delle stelle» deve molto al grande Bardo e a «Il Conte di Montecristo»

Fry fa il verso a Shakespeare e Dumas

Con un titolo così poco commerciale e una copertina all’altezza, se uno non ne parla bene al più presto c’è il rischio che Le palle da tennis delle stelle (Baldini Castoldi Dalai, pagg. 390, euro 16,20), ultima fatica dell’inglese Stephen Fry, passi dagli scaffali delle librerie a quelli dei remainders nel giro di due settimane. E sarebbe un peccato. Il titolo non è colpa dell’editore (la copertina sì), dato che è la traduzione fedele dell’originale inglese The stars’ tennis balls. Del resto Fry si distingue da sempre per l’originalità dei titoli (e per il loro non particolare appeal commerciale). Sono propenso a vedere in questo un’ulteriore manifestazione del famoso humour che rimane uno dei prodotti tipici dell’Inghilterra, e di cui Fry è uno degli ultimi rappresentanti. Se si può accostare un film a un libro come si accosta un vino a un piatto, direi che questo romanzo andrebbe degustato assieme a un recentissimo film britannico dal titolo altrettanto bizzarro, La notte dei morti dementi (in inglese: Shaun of the Dead), mordace parodia, nel titolo come nel contenuto, del romeriano - non rohmeriano! - Dawn of the Dead.
L’accostamento a un film non è casuale, dato che Fry, oltre che scrittore, è eccellente attore, sia di teatro che di cinema: poderoso protagonista di Wilde, cesellatore di ruoli in film come Gli amici di Peter, Un pesce di nome Wanda e Gosford park, interprete del celeberrimo domestico Jeeves in una serie televisiva inglese, Fry ha un senso perfetto della battuta, dei tempi, della costruzione di un plot. Prendiamo la storia in questione, Le palle da tennis delle stelle, che ad onta del titolo non è l’autobiografia di un raccattapalle di Hollywood. Il titolo è preso da un’opera teatrale elisabettiana, e la storia si basa sul meccanismo narrativo forse più efficace di tutti i tempi: giovane bello e di altrettanto belle speranze, giunto alle soglie della felicità precipita - a causa di un complotto dettato dall’invidia altrui - nell’abisso più nero, dal quale riesce a risorgere, trionfando nel finale. Schema tipico di molti grandi romanzi ottocenteschi, fra cui Il conte di Montecristo, opera cui Fry dichiaratamente s’ispira.
Il romanzo alterna pagine commoventi ad altre esilaranti come quelle che raccontano la scoperta, da parte di Ned, dei progressi tecnologici del nostro tempo e della sua assoluta, affascinante immoralità, o la poliedrica educazione impartita dal geniale Babe, che trasforma un bamboccio viziato in un genio machiavellico, dall’intelligenza affilata come una lama mortale. Con passo veloce e narrativamente efficace Fry accompagna i suoi personaggi verso un finale mozzafiato, degno epilogo shakespeariano (ma più dalle parti del Tito Andronico e del Cimbelino che non di Amleto). Il redivivo Ned, reincarnatosi sotto le mentite spoglie del cyber-miliardario Simon Cotter, diventa lo strumento di una vendetta terribile, che alla fine lascerà sul terreno solo vittime e nessun vero vincitore.
Il romanzo fa venire subito voglia di un altro assaggio di Fry. Nell’impossibilità di disporre in italiano dell’accattivante romanzo di storia alternativa Making history (i cui lettori, fra l’altro, fanno la conoscenza dei fantastici computer di un mondo in cui Bill Gates non ha vinto la guerra... ) e dell’autobiografico Moab is my washpot (resoconto fra il poetico e l’umoristico degli anni di formazione di un gay dichiarato e pienamente realizzato, opera che chiarisce i motivi della fascinazione di Stephen Fry - classe 1957 - per le scuole preparatorie inglesi d’un tempo e per il loro ricco menu di punizioni corporali e incanti omoerotici) possiamo consolarci con la riedizione in tascabile, sempre per Baldini Castoldi Dalai (pagg. 302, euro 7,90), del romanzo del 1994 Hippopotamus (titolo che è una citazione da una poesia di T. S. Eliot, e non la pubblicità di una nota catena di bistrot francesi), semiserio resoconto della vita e dei tempi di Ted Wallace, un tempo astro nascente della poesia inglese e ora giornalista frustrato, alcolista e sovrappeso, oltre che di recente licenziamento.


Impagabile, e degno biglietto da visita del libro, l’insolito ringraziamento iniziale: «L’autore desidera ringraziare Matthew Rice per l’insostituibile aiuto prestato per la stesura delle scene di caccia. Qualsiasi inesattezza fosse contenuta in tali parti è di sua completa responsabilità»...

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